Stefania Sandrelli: una donna allo specchio

A distanza di cinquantadue anni, Io la conoscevo bene, adesso proiettato nei cinema francesi attira ancora gente in sala. Feci il film, che resta un capolavoro, perché Antonio Pietrangeli nei confronti delle donne aveva una visione particolare, uno sguardo colmo di rispetto e comprensione”.

Siamo nel 1965 e questa penultima opera del regista laziale, prematuramente poi scomparso, viene incorniciata con rara sensibilità nel quadro del costume contemporaneo poiché ritrae con intense pennellate in bianconero la drammatica vicenda di una semplice ragazza di provincia che vuole farsi largo nel mondo dello spettacolo ma, ben presto disillusa nei suoi sentimenti, alla fine  compie il gesto estremo.

Stefania Sandrelli, da un anno e qualche mese ha oltrepassato i settanta, ma guarda allo specchio del tempo senza brame e si racconta con la stessa leggerezza di quando era una bambina colma di spensieratezza: Avevo troppa frenesia di brigare e per non smettere di giocare trattenevo perfino la pipì. Sono rimasta la stessa ottimista di ieri perché ho vissuto una vita meravigliosa simile a un bellissimo viaggio”

STEFANIA SANDRELLI

Cominciato quando appena quindicenne in “Divorzio all’italiana“, interpreta Angela: una giovanetta, falsa ingenua, che prima irretisce e poi tradisce Fefè, un indolente nobile siciliano annoiato da una vita senza sussulti che, con lo scopo di sposarla, vive una serie di inenarrabili vicissitudini per liberarsi della moglie tontolona. Il film del 1961, regista Pietro Germi, si rivela uno sbalorditivo successo perché, oltre a mettere a nudo la grottesca realtà di una società arroccata a una mentalità tradizionale, riflette sullo schermo la sua imbarazzante bellezza che si combina benissimo con le rare qualità dello splendido Marcello Mastroianni.

“A Marcello ho sempre invidiato la calma. Io ero sempre eccitata e lui dormiva al trucco. Girava una scena impegnativa e poi come se nulla fosse si ritirava all’ombra di un albero a riposare. Me lo ricordo poco prima che morisse, in una notte romana, scendere dal taxi per abbracciarmi e dirmi una frase che non ho più dimenticato: Non ti far mai toccare da nessuno. A differenza di altri attori, dei colonnelli del cinema italiano come Manfredi o Gassman, non mi ha fatto mai la corte, neanche leggera o velata. Marcello era di una bellezza simile a mia madre. Nelle persone con cui ho amato dividere il lavoro c’era sempre una componente familiare, nel fisico e nel carattere”.

Tre anni dopo, ancora diretta dall’intransigente cineasta genovese, gira” Sedotta e abbandonata “, un altro film sul costume siciliano, dove interpreta Agnese, la figlia un po’ troppo disinvolta dell’irruente e sanguigno padre (un grande Saro Urzì), che alla fine ne determina il destino anche a costo della vita.

Germi, mi prese con i tempi del cinema, tempi che si dilatavano per mesi e io che ormai ci avevo preso gusto accettai altri due piccoli ingaggi, con Sequi in Gioventù di notte e con Salce ne Il Federale. Lui si incazzò come una iena:” Hai già fatto il provino per me, gridava, non puoi recitare per gli altri”. Pietro sapeva arrabbiarsi. Urlava, spaccava i sigari, mangiava da solo, era un vero orso. Ma poi, vivendo l’esperienza del cinema in maniera totalizzante, sapeva anche come trasformarsi. Dietro la macchina da presa io l’ho visto persino cantare. Lo adoravo. È stato il mio pigmalione, mi ha insegnato tutto, mi ha trasmesso l’amore per il cinema, mi ha protetta, anche. Non avevo ancora idea di cosa significasse professionismo. Ero immersa in una naïveté che nelle pause mi faceva assalire negozi e gelaterie. Quando non mi trovava, lui si infuriava. Affrontavo le sue sfuriate con calma olimpica, minacciandolo di andarmene: “Sono inesperta, quindi se lei riesce a venire verso di me, io provo a venire verso di lei, altrimenti a tornare a Viareggio impiego un minuto. Se avessi lasciato il cinema, mia madre sarebbe stata felice”.

Purtroppo per lei, Stefanina, come la chiamava, magistralmente diretta dal mentore storico in ambedue i film regge benissimo la scena recitando con naturalezza ed espressività.

Ancora lui Germi, nel 1967, la rivuole con sé come protagonista di “L’immorale”, una sfaccettata commedia sul contesto sociale che circonda l’ineffabile protagonista, interpretato da Tognazzi, dedito a una frenetica poligamia.

“Ugo, uomo simpaticissimo, e forse è l’attore che fuori dal set ho frequentato di più. Cucinava sempre, anche nelle situazioni più impensabili. Era un avvelenatore, ma nonostante questa mania non diventò mai grassissimo”.

Passa qualche anno e Stefania si ritrova sul set di “Il conformista” di Bernardo Bertolucci, accanto al tenebroso Jean Louis Trintignant, e alla stupenda Dominique Sanda con la quale gira la scena di un memorabile ballo dal codice velatamente sessuale.

“Bertolucci era gentile, un po’ aristocratico, molto dedito al suo mestiere. Una volta si incazzò perché era spuntata l’alba prima che concludesse la scena che doveva girare. Era fuori di sé. Mi avvicinai con calma: “Bernardo, ma ti rendi conto della tua reazione? Non puoi fermare il giorno che arriva, non sei onnipotente. Jean Louis me lo ricordo come un attore enorme, con la grandezza di chi a ogni film sa di dover dimostrare qualcosa in più e di doversi far scoprire dal pubblico in un’altra veste. Eravamo una famiglia: “Hai dormito bene? Vuoi il caffè? Sei contenta del lavoro?”. Lui e Bernardo mi tutelavano e non mi facevano sentire mai un’estranea».

Nello stesso anno l’attrice toscana viene a contatto con lo spigoloso Mario Monicelli, regista di raro intuito professionale, che le affida la parte dell’attraente strega Tiburzia nella rutilante commedia in costume “Brancaleone alle crociate”.

“Gli ho voluto veramente bene, dai suoi settant’anni non ho saltato un suo solo compleanno. Era arguto, affettuoso, fintamente burbero, ma capace ogni tanto di sviluppare cattiverie insospettabili. Sul set di questo film Mario, si irritò ulteriormente perché i tempi per girare, divennero all’improvviso stretti e trattò male un ragazzino. Era un pupo, un bambolotto cicciottello e lui lo maltrattava. Gli disse una frase brusca: Sei un trippone e quello scoppiò a piangere. Io mi incazzai come una biscia: Se fai così me ne vado e non torno mai più. Me ne andai e tornai la mattina dopo. Ero fatta così. Sono fatta così”.

All’inizio degli anni settanta, riprende la collaborazione con l’amato Pietro Germi, duettando alla grande con il candido Dustin Hoffman del film:” Alfredo, Alfredo”. Poi entra definitivamente nel cuore e rimane ben impressa nella mente degli italiani nel ruolo di Luciana, il personaggio cardine che tiene legati attraverso un filo invisibile i tre protagonisti: Gassman, Manfredi e Satta Flores nel bellissimo affresco storico che ripercorre trenta anni di vita italiana di “C’eravamo tanti amati”, e sul set di questo capolavoro di Ettore Scola si sviluppa un’intesa spontanea specie coi primi due.

“Con Nino, un amico molto semplice, s’instaurò un rapporto di assoluta complicità, Vittorio non se la tirava mai. E spesso trascorreva le pause con i macchinisti e con gli operatori. Finimmo in ospedale insieme, sul set di quel film per gli avanzi di un polpettone micidiale. C’era il rito del cestino, una liturgia quasi sacrale. Un bivacco soave. A me il cestino, con il suo slalom tra le pietanze e quel senso di scoperta e di sorpresa da rinnovare ogni giorno, è sempre piaciuto”. Con Scola Stefania girerà gli introspettivi La terrazza e La Famiglia. “Quest’ultimo è un film perfetto, quello che sicuramente gli somiglia di più. Conobbi Scola durante i provini di Io la conoscevo bene di Pietrangeli. Mi accolse con amicizia. Aveva un sorriso largo, una selva di capelli neri, una pinguedine rassicurante, mi conquistò. Fece breccia avrebbe detto lui. C’era qualcosa che ci univa. Eravamo entrambi miopi, proprio come mio padre e mio fratello. Aveva la fragilità e l’autoironia che i miopi, per autodifesa, sviluppano nei confronti della vita”.

A parere unanime l’attrice viareggina, oltre che molto brava, aveva il raro dono di cospargere di una profumata freschezza qualunque set e i registi con i quali aveva lavorato più che volentieri la reclamavano.

Di nuovo Bertolucci le affida una parte di rilievo nell’impegnativo scenario del sofferto “Novecento” dove nel cast spiccavano le prestigiose firme di due attori famosi: Gerard Depardieu e Robert De Niro. A suo dire l’uno era spesso molesto perché non sapeva controllare i suoi istinti, mentre l’altro soffriva del difetto opposto preso com’era dalla sua eccessiva professionalità.

In possesso di una femminilità strabordante Stefania Sandrelli, inaugura il nuovo decennio all’insegna dell’eros e segna una svolta, quando si lascia dirigere in “La chiave” da quel vecchio volpone di Tinto Brass, che abilmente lascia trasparire intatta sullo schermo la sua voglia di libertà di donna vera, questa volta senza schemi e senza veli.

Vissuta anche questa esperienza appare nel cast tutto al femminile di “Speriamo che sia femmina “di Monicelli e si trova più che a suo agio nel ruolo di una madre nel film di Francesca Archibugi: “Mignon è partita”. L’elenco dei suoi film sarebbe ancora molto lungo, così come quello dei premi ricevuti, ma quel che veramente importa è il modo col quale ancora oggi, Stefania Sandrelli si propone perché, prima d’istinto e poi di esperienza, ha imparato il come si fa nei rapporti con l’altro sesso;” Gli uomini non sanno aspettare, a volte sono degli animaletti, vanno subito al sodo. Li ho capiti presto e li ho affrontati con l’ironia, l’unico antidoto al dolore che conosca, la sola pozione che guarisca davvero”; a gestire il tempo che passa:” Il cinema ha il potere di congelare le cose, poi ovviamente il tempo corre e ci ritroviamo con i capelli bianchi o con i denti finti, ma non ho rimpianti e non credo nella nostalgia. Non posso permettermela”; e a riproporsi facendo leva sull’invidiabile freschezza di una inossidabile signora nata a Viareggio nel 1946.

Una vita a modo suo, esaltata da più di mezzo secolo di costante e incisiva presenza nel mondo dello spettacolo, la spinge ancora avanti: chissà forse sulla magica eco di Una lunga storia d’amore, la canzone su misura per lei scritta da Gino Paoli, uno che la conosceva bene.

Vincenzo Filippo Bumbica