Manfredi Saturnino e l’importanza di chiamarsi Nino

“Fusse che fusse la vorta bona”. È il concreto auspicio di un ciociaro verace, il mitico barista dello spettacolo Canzonissima che diviene il tormentone televisivo di quel tempo. Nei panni di un personaggio che in fondo rispecchia la filosofia di vita di uno che aveva fatto tanta gavetta e che dunque spera di raccogliere il giusto frutto, Nino Manfredi si rivela a un pubblico ben più vasto di quello cui era abituato: quello casalingo, sempre più preponderante, che riunito attorno a quella scatola magica consuma il rito settimanale del sabato sera.

Siamo nel 1959 e la genuina verve di quell’attore semisconosciuto, assieme alla bravissima soubrette dall’incontenibile charme Delia Scala e alla bonaria comicità di Paolo Panelli, contribuirono non poco al grande successo di quella che verrà riconosciuta come una delle più belle trasmissioni televisive di ogni epoca.

Il teatro, quello tradizionale vissuto accanto ai grandi interpreti del dopoguerra era stato la culla che aveva dondolato il talento del giovane Nino, all’anagrafe Saturnino Manfredi nato a Castro dei Volsci nel 1921. Non appena sedicenne, ammalato di tubercolosi e ricoverato in un nosocomio, guarisce non appena asseconda un profondo impulso dell’anima verso l’arte: un irresistibile trasporto per la recitazione che, nonostante si fosse poi laureato in giurisprudenza nel 1945 per accontentare la famiglia, lo porta invece due anni dopo a diplomarsi all’Accademia nazionale d’arte drammatica. Di conseguenza comincia a frequentare il teatro Sistina di Roma e sotto la direzione del suo maestro Orazio Costa entra nella Compagnia Maltagliati-Gassman affiancato da Tino Buazzelli per poi ritrovarsi a recitare, non ancora passati 12 mesi, al Piccolo teatro di Milano diretto da Giorgio Strehler. Agli inizi degli anni 50, abbandonata la prosa, l’irrequieto giovanotto non ci pensa troppo a lungo prima di sperimentarsi in varietà radiofonici in compagnia di altrettanti valenti attori: Paolo Ferrari, Gianni Bonagura e quindi in spettacoli di rivista e musical firmati da autori tra gli altri come Marcello Marchesi, Vittorio Metz, Age e Scarpelli al fianco di Bili e Riva e della divina Wanda Osiris. Nel frattempo appare come protagonista di film musical-sentimentale a altri di poco spessore, ma nel 1955 la sua vita prende una svolta: sposa Erminia la donna che gli darà sentimento, sostanza e figli e partecipa attivamente a due pellicole di gran pregio: “Gli innamorati” di Mauro Bolognini e “Lo scapolo” di Antonio Pietrangeli. Dopo una significativa collaborazione con Garinei e Giovannini nella commedia musicale “Un trapezio per Lisistrata”, partner femminile Delia Scala, Nino Manfredi imbocca la strada che il suo modo di essere ha appena tracciato: quella del cinema.

Ed è proprio quel grande successo televisivo ottenuto nei panni della divertente macchietta di Ceccano che lo proietta in una dimensione di notorietà assoluta, propedeutica di una brillante carriera dove l’attore che è dentro di lui rivelerà poco a poco assieme alla grande capacità umoristica, l’altra faccia del suo straordinario talento: quella drammatica. E molto spesso Nino nell’arco dello stesso film mostra queste due maschere per svelare il suo vero volto. I personaggi che lui interpreta sono uomini fondamentalmente positivi in possesso di una loro dignità e moralità destinati inevitabilmente alla sconfitta ma non umiliati; grazie alle loro doti di amara ironia sono spesso in grado di sovrastare il prepotente e ipotetico vincitore.

All’alba degli anni del boom e non più tenero giovanottello a trentotto anni Manfredi da inizio alla sua età dell’oro cinematografica, già cominciata con la qualifica di eccellente doppiatore.

Diretto da Nanni Loy, infila la tuta di Piedeamaro: un‘improbabile “tecnico”, ingaggiato come autista da una sgangherata banda di ladri in “Audace colpo dei soliti ignoti”, inevitabile sequel del primo film di grande successo. In seguito con il regista sardo, acuto dissacratore del costume italiano, lavorerà ancora negli anni successivi: impersonando prima il cittadino comune annichilito da allucinati lacciuoli burocratici di “Made in Italy” 1965; poi il sessantottino architetto che deve fare i conti con una nuova realtà in “Il padre di famiglia” 1967 e infine lo scaltro abusivo che campa lucrando su una supposta infermità di “Cafè Express” 1980.

Siamo invece all’alba della sua carriera quando, nel ruolo del grigio burocrate senza carattere di “L’impiegato”, incomincia a disegnare il suo profilo nell’ambito della commedia italiana e ne diventa protagonista assoluto. Ben spalleggiato dalla godibile Franca Valeri nel ruolo del maldestro borgataro in “Crimen”; invischiato in situazioni paradossali nel provocante e scomodo” A cavallo della tigre”; disinvolto e scanzonato assicuratore scambiato per un potente gerarca fascista in “Anni ruggenti” di Luigi Zampa e disilluso cognato di Alberto Sordi che fugge dalla civiltà consumistica in “Riusciranno i nostri eroi a trovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?” di Ettore Scola del 1968. Nello stesso anno affianca Ugo Tognazzi nella ruspante ma garbata commedia “Straziami ma di baci saziami” di Dino Risi, dove i due forniscono una strepitosa performance. Diretto da quest’ultimo Nino, appena un anno dopo, appare nelle molteplici sfaccettature sessuali dei personaggi di “Vedo Nudo”, e nel 1974 ritroverà il poetico Ettore Scola sul set di un indimenticabile e nostalgico capolavoro italiano: ”C’eravamo tanto amati” dove interpreta Antonio, l’idealista portantino dal carattere molto fumantino.

Alla fine di quel decennio, l’attore ciociaro inizia una fattiva collaborazione con Luigi Magni, un regista attento studioso delle dinamiche religiose e sociali dell’ottocentesca Roma Papalina, che si concretizza in una trilogia storica cominciata con ”Nell’anno del Signore” del 1969; proseguita con ”In nome del Papa Re” anno 1977; e conclusa in bellezza negli anni novanta con ”In nome del popolo sovrano”. Tre magnifiche interpretazioni, specialmente la prima, musicata dall’ impareggiabile maestro Armando Trovajoli, nella quale un superlativo Manfredi nei modesti panni di un anonimo calzolaio nasconde il personaggio di Pasquino, un salace autore di epigrammi che sbeffeggiano l’autorità costituita. Per altri versi, nelle altre due pellicole, egli esprime al meglio sé stesso dando vita a personaggi diversi e di tutt’altro carattere e personalità.

Le sirene del teatro leggero, primo amore che non scordò mai, che lo avevano attratto nel 1963 in occasione del musical “Rugantino”, accentuano il loro irresistibile canto trasformandosi in suadenti ondine coccolanti che lo spingono a ritornare in tv per dare un volto rugoso ma amorevole al mite Geppetto nello sceneggiato Pinocchio di Luigi Comencini e ancora una volta il Nino nazionale sfoggia una bravura non comune nella toccante caratterizzazione di quel tenero uomo.

Corre l’anno 1971 e Manfredi regista e interprete gira ”Per grazia ricevuta”, un film quasi autobiografico sul tema della fede religiosa e la sua incidenza sui rapporti umani e proprio in questo periodo sfodera tutta una serie di memorabili personaggi che hanno fatto la storia del nostro cinema: l’indipendente e libero fotografo perseguitato, poiché tale, da un ottuso e geloso esponente del regime fascista in” Girolimoni, il mostro di Roma”; lo sprovveduto emigrante di “Pane e cioccolata” che si tinge di biondo per farsi accettare dalla comunità svizzera; il violento e insensibile Giacinto, padre padrone di una comunità di disgraziati confinati assieme alle loro miserie nella squallida realtà periferica di “Brutti, sporchi e cattivi” ancora con Scola; lo squattrinato Sasà un sedicente avvocato che si arrabatta nella Napoli strangolata dalla mentalità camorristica di “La mazzetta”; il grigio ragioniere romano trapiantato al nord di “Il giocattolo “ di Giuliano Montaldo, che per dimenticare le sue irreparabili frustrazioni acquista prima e usa dopo un’ arma e il tenace cameriere dalla spiccata carica umana di “Spaghetti House”.

In tutti questi titoli è concentrato il meglio di un attore che pur tuttavia continuerà la sua carriera in altri ruoli, altri progetti e altri impegni anche non prettamente cinematografici. Però gli anni passano, la vita corre e il tramonto artistico diventa sempre più vicino. La tragedia di un attore è quella di non sopravvivere con serenità a tale evento, Nino Manfredi ci riuscì prima che il diagramma delle sue onde cerebrali diventasse quasi piatto e dunque non fu tanto triste quel 4 giugno del 2004: se ne andò senza fatica perché la morte gli fu amica.

Vincenzo Filippo Bumbica