Sogno di una notte a Bicocca: reclusione e sogni di libertà in un’opera di meta-teatro “al quadrato”

Spettacolo articolato, colto e “denso di realtà”, sebbene dialoghi continuamente con la finzione,  “Sogno di una notte a Bicocca” di Francesca Ferro, in replica dal 21 al 24 febbraio al Piccolo Teatro di Catania, si avvale del meta teatro per raccontare l’esperienza di alcuni detenuti di Bicocca, che, coinvolti in un progetto teatrale all’interno del carcere, reinterpretano e mettono in scena la commedia Shakespeariana “Sogno di una notte di mezza estate“.

Già al suo ingresso in sala, ancora prima che la rappresentazione sia cominciata, lo spettatore ne percepisce l’ambientazione carceraria (scenografia di Arsinoe Delacroix): sbarre di ferro occupano quasi interamente il palco, lasciando libero solo uno stretto corridoio, come se si trattasse davvero di una prigione. I primi personaggi ad entrare in scena sono la guardia carceraria (Antonio Marino) e l’attrice Francesca (Francesca Ferro nei panni di se stessa), la quale (come spiega al secondino) è lì per tenere un laboratorio teatrale con i detenuti. Segue la presentazione dei singoli prigionieri, che dietro le sbarre, illuminati a turno dalle luci teatrali, dichiarano il proprio nome e soprannome e la propria pena da scontare. La regia li dipinge come fossero ombre, figure oscure che si agitano nelle gabbie, a tratti in modo animalesco, ponendosi dal punto di vista di Francesca e dello spettatore, che, per adesso, conoscono solo le loro colpe e tratti fugaci del loro volto. E’ solo l’incipit; nel corso dello spettacolo, infatti, i detenuti diventeranno molto di più di semplici sagome, perché gradualmente ognuno di loro svelerà se stesso e saranno conosciuti dal pubblico nella loro individualità, nei loro contrasti di luce e ombra, nel loro peculiare senso dell’ironia e nel loro personale bisogno di individuazione.

Con grande realismo la regia sobria e attenta di Francesca Ferro fa assumere ben presto dinamiche corali allo spettacolo, che non lasciano in ombra il singolo personaggio, ma al contrario sfruttano la collettività per  farlo emergere ed essere riconosciuto come individuo singolo nell’anonimato indifferente del carcere. Si alternano così scene di vita carceraria a scene che descrivono l’esperienza del laboratorio teatrale.

 Nelle prime ciò che viene messo in risalto non è un generico dramma delle prigioni (il che sarebbe stato banale e poco efficace), al contrario, viene descritta con cura e sensibilità la monotonia dei giorni e l’angoscia della reclusione vissuta da ciascuno in modo diverso: da chi si richiude in se stesso a chi è rabbioso e aggressivo.  Vengono rappresentate con realismo e grande partecipazione espressiva dagli attori le singole sofferenze di ognuno, non decantate o enfatizzate, ma spesso soffocate, non pienamente comprensibili nemmeno da chi le affronta. In questo chiaroscuro di sensazioni il teatro diventa un importante mezzo di comunicazione e svelamento, un linguaggio per poter esprimere se stessi. Così l’iniziale diffidenza dei prigionieri si tramuta gradualmente in partecipazione attiva, interesse, attesa, sano protagonismo, che si oppone all’insano, ma onnipresente senso di annientamento e di solitudine, che porta spesso a un’aggressività esasperata e  all’instabilità emotiva, come nel caso del detenuto napoletano (un carismatico Silvio Laviano), oppure all’autodistruzione (la storia del detenuto interpretato da Giovanni Arezzo).

Nelle scene di laboratorio teatrale, invece, il dramma dei detenuti lascia il posto all’ironia dirompente dei personaggi che rielaborano il testo dell’opera di Shakespeare, adattandolo, ciascuno con le proprie doti di improvvisazione e il proprio dialetto (all’interno del carcere vi sono infatti detenuti che provengono non solo da Catania, ma anche da varie parti della Sicilia, uno perfino da Napoli ), con la propria comicità  e la propria esperienza. E’ così che l’opera di Shakespeare, che ai detenuti appare inizialmente incomprensibile, viene da essi destrutturata, rivisitata,  compresa e condivisa sulla scena in modo a dir poco originale, creativo e coinvolgente.

Di conseguenza questo comporta delle situazioni comiche (a tratti esilaranti), per come il soggetto letterario venga spesso deformato nel suo linguaggio d’origine. Tra queste ad esempio i numerosi strafalcioni di alcuni detenuti, come quelli del personaggio interpretato da Mario Opinato, o quelle del detenuto Elvis (Renny Zapato), per i quali, ad esempio, gli Ateniesi diventano Catanesi, il re dei folletti Oberon, un Dobermann e il bosco viene identificato come  “u tunniceddu da Playa”. Divertenti anche le irriverenti battute di alcuni detenuti che si insultano e si punzecchiano l’un l’altro durante tutta la rappresentazione (soprattutto i ruoli degli attori Francesco Maria Attardi e Vincenzo Ricca). Un’ironia acuta, che si estende a tutti i personaggi, anche quelli più insospettabili e che, nel suo essere dissacrante verso Shakespeare, in fondo, lo rispetta nella storia e nei contenuti e rende unico questo “copione carcerario”, per cui lo spettatore si diverte insieme ai detenuti che lo recitano, partecipando attivamente alle loro brillanti trovate o alle loro stravaganti storpiature. Altra idea d’impatto è quella di mettere in scena dei singoli colloqui, che i carcerati hanno con Francesca durante il laboratorio teatrale. In tali parentesi individuali i protagonisti denudano se stessi: vogliono consigli su come approcciarsi alla finzione teatrale e quest’ultima diventa per loro l’unico modo per evadere virtualmente dal luogo chiuso in cui si trovano e dare voce alla loro angoscia.

La vera forza di Sogno di una notte a Bicocca però è il fatto che nessuno degli elementi dello spettacolo appare forzato. Le battute recitate dagli attori sembrano davvero improvvisate sulla scena. Questa naturalezza espressiva, che si traduce in realismo, dipende in buona parte dalla sceneggiatura, che è il frutto di una reale collaborazione di Francesca Ferro con i detenuti di Bicocca, in un laboratorio teatrale all’interno del carcere.

La regista ha veramente interagito con queste persone e l’esperienza è stata talmente ricca, importante e creativa che ha deciso di farne uno spettacolo teatrale con attori professionisti, per far rivivere sul palco le personalità da lei incontrate in carcere. In questo modo l’autrice fa un’operazione molto intelligente e complessa, che, con un termine un po’ atipico, potremmo definire di “meta teatro al quadrato”, perché usa uno spettacolo teatrale, nato dentro un carcere, come copione per un altro spettacolo che si verifica fuori da quest’ultimo, simulando però con grande cura l’ambiente, il carattere e le singole attitudini dei detenuti. E’ così che gli attori di Sogno di una notte a Bicocca interpretano dei prigionieri che a loro volta cercano di entrare nei panni dei personaggi di Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare: un teatro che riflette su stesso ma al contempo sulla realtà della reclusione. Un esperimento teatrale elaborato, che può dirsi riuscito grazie alla regia e alla convincente interpretazione degli attori, realistica al punto da far credere che essi siano davvero dei detenuti che stiano improvvisando sulla scena, quando invece seguono un copione. Non è un caso che l’autrice riveli, solo alla fine, questo aspetto: l’obiettivo è seminare il dubbio negli spettatori.

Si tratta di realtà o finzione? Lo stesso dubbio che è alla base dell’opera di Shakespeare, i cui protagonisti umani sono spesso ottenebrati dal sogno, indotto loro dalle divinità dei boschi e compiono azioni irrazionali e atipiche  come innamorarsi perdutamente di una donna che non avevano mai guardato prima, o nel caso di Titania, la dea dei boschi, interpretata dal detenuto Cardinale (un convincente Agostino Zumbo), di essersi  addirittura invaghiti di un asino.

Bello poi il toccante finale, in cui Puck (Silvio Laviano), il dispettoso servitore di Oberon, rivela agli spettatori che ogni cosa da loro vista è stata solo un sogno. “Finito è lo spettacolo e l’incanto. Ora signori addio, ma siate umani, salutate col batter delle mani questa nostra fatica e il dio del canto”.

Così come è finito lo spettacolo, allo stesso modo è finita l’illusione dei detenuti, che grazie al teatro hanno potuto evadere dalla loro realtà chiusa e dalla loro prigione, nel breve ma intenso Sogno di una notte a Bicocca.  Il finale non è solo malinconico ma anche colmo di speranza, perché riconosce un valore indefettibile dell’arte che è quello di rendere liberi al di là delle prigioni fisiche e mentali e sottolinea che il desiderio di continuare a sognare, può essere un’arma con cui difendersi dalla solitudine e dal senso di abbandono che il carcere in molti casi produce. Sul piano dei significato lo spettacolo di Francesca Ferro è chiaramente indirizzato verso la rieducazione dei detenuti: lo è però con realismo, senza abbellimenti, ne sconti, senza negare la difficoltà della sua realizzazione, esaltandone proprio in questo modo l’efficacia dei possibili risultati. I detenuti sono persone vere, non masse indistinte e senza volto (come all’inizio dello spettacolo).

L’arte può arrivare anche a loro, così come arriva a tutti gli uomini. Può farli sognare e farli comunicare. Per questo motivo la fantasia e il sogno non devono mai essere precluse a nessuno ed il teatro può vivere dentro un carcere , così come può avvenire anche il contrario: il carcere può rivivere nel teatro. Un ultimo riferimento, infine, al cinema. Le dinamiche dello spettacolo, infatti, rievocano molto da vicino “Cesare deve morire” dei Fratelli Taviani, che non a caso, per la sua intensità e importanza ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino del 2012. Anche lì, dei detenuti (del carcere di Rebibbia) interpretano un’opera di Shakespeare, una tragedia: il “Giulio Cesare”. Girato in bianco e nero, il film utilizza il carcere e i suoi ambienti come un vero teatro, alternando alla rappresentazione teatrale scene di vita carceraria. Uno stile asciutto, essenziale, di una profondità notevole. I detenuti si compenetrano talmente nelle dinamiche di potere e di tradimenti del dramma di Shakespeare da rendere la rappresentazione autentica, in qualche modo universale: l’universalità delle passioni umane e del teatro di Shakespeare incarnata da uomini che liberi non sono, ma che, non per questo, possono essere considerati meno umani degli altri.

Francesco Bellia