“Sette minuti dopo la mezzanotte”: la chiamata del mostro

Di indubbio impatto visivo ed emotivo, “Sette minuti dopo la mezzanotte” (titolo italiano un po’ fuorviante rispetto all’originale “A monster call”), l’ultimo film di Juan Antonio Bayona (regista di “The orphanage” e “The impossibile”) esce anche in Italia dopo aver conquistato ben 9 premi Goya in Spagna.

Conor O’Malley è un ragazzino pieno di inventiva e creatività. Ama disegnare e immaginare storie, nelle quali trova rifugio dinnanzi alle difficoltà: prima tra tutte la malattia della madre, che si aggrava ogni giorno di più. Una notte, un mostro-albero invade la sua stanza. Malgrado l’aspetto pauroso e imponente, non è malvagio, anzi è un racconta-storie. Vuole narrarne tre a Conor, dopo le quali il ragazzo sarà obbligato a sua volta a raccontare la propria, confessando le verità che si celano dietro i suoi incubi…

Fantasia e disagio, immaginazione e sofferenza, sono due binomi quasi onnipresenti nel cinema fantastico, proprio per la valenza catartica, insita nell’immaginare altri mondi, realtà nuove e sconosciute in cui trovare riparo dalle difficoltà, metafore spesso necessarie per elaborare ed esprimere le complesse emozioni che scavano all’interno del proprio animo. Il film di Bayona (tratto dall’omonimo romanzo di Patrick Ness), al contrario di altri, non si nasconde dietro l’ambiguità tra verità e finzione. Non gioca con lo spettatore mischiando e confondendo i due piani (come ad esempio nel “Labirinto del Fauno” di Del Toro). Fin da subito li tiene distinti. Il mostro è chiaramente una creatura fantastica, partorita dalla mente di Conor, che lo evoca per far fronte alle avversità. E’ un padre-albero che gli fornisce forza e conforto; dà espressione alla sua rabbia e al suo desiderio distruttivo, ma al contempo tempera le sue reazioni più istintive. Lo rassicura, ma è anche fonte di profondo turbamento, perché lo provoca con le sue strane storie, che in verità appaiono subito atipiche e contraddittorie.

Ogni fiaba è destabilizzante e reca in sé un suo insegnamento, primo tra tutti la duplicità insita nella vita reale, che è sempre complessa, multisfaccettata, spesso difficile da definire univocamente come bene o male. Con i suoi racconti l’albero fa “scontrare” il ragazzo con la dura realtà, “scoperchia” le sue paure più recondite, come fa con le case e gli edifici. Nessuno spazio, che sia esteriore o interiore, gli è precluso, così come nessuna emozione, rabbia, dolore o senso di colpa. E’ nell’immaginazione veicolata dal mostro che paradossalmente Conor “forgia” se stesso per affrontare e accettare il doloroso futuro che lo attende.

Forte, commovente (a tratti struggente), ma per nulla banale, la parte finale del film, in cui il protagonista, incalzato dal “demone” albero, confessa e ammette la sua paura più grande, ovvero quella vissuta nei suoi peggiori incubi, che provoca in lui un distruttivo e annichilente senso di colpa: l desiderio che tutto finisca il prima possibile, nonostante le inaccettabili conseguenze che ciò inevitabilmente comporta. Bayona scommette sulle emozioni, ma lo fa senza mai deviare dalla strada intrapresa fin dall’inizio del film. L’emozione è autentica, verosimile e sentita. Non come in The Orphanage, dello stesso regista, in cui sul finire assumeva toni forzati e melensi, superflui nell’ottica della pellicola. “Sette minuti dopo la mezzanotte” non è un banale cancer movie. Il dolore e le problematiche legate alla malattia sono analizzate con cognizione di causa, forti probabilmente del romanzo bestseller da cui è tratta l’opera, al livello di sceneggiatura.  La metafora non è mistificata, ma chiara e questo non è un limite, ma un vantaggio, perché permette al regista di concentrarsi sull’interiorità di Conor, piuttosto che sulle suggestioni  del suo mondo fantastico. Convincenti anche gli interpreti a partire dal ragazzo, Lewis Mcdougall, la madre (una “scavata” Felicity Jones) e la nonna (la sempre intensa Sigourney Weaver).

Le stupende animazioni in acquerello, integrate con la computer grafica, che immortalano i personaggi misteriosi e senza volto dei racconti onirici narrati dall’albero, su sfondi incantati a tinte rosse e dorate, sono senz’altro originali e rappresentano un altro punto forte del film: gli conferiscono un’ identità visiva propria, cosa difficile visti i precedenti, tra cui  “Il Labirinto del Fauno”. Convincenti anche le animazioni dell’albero che entra con vigore e forza negli spazi, li distrugge, li avvolge con i suoi rami. Al livello scenico molto bella la scena dell’incubo, in cui la “catastrofe” interiore che avviene dentro Conor, viene rappresentata sottoforma di un terremoto che priva gli oggetti, anche le costruzioni più stabili, di sostegno e radici, risucchiando tutto verso un baratro oscuro e profondo.

Altro tema fondamentale della pellicola è l’arte. I racconti, i disegni, lo stesso uomo albero rappresentano, infatti, il legame inscindibile che unisce il protagonista alla madre. In tal senso viene in mente il confronto con “Neverland” di Marc Forster, che racconta la genesi della piece teatrale “Peter Pan” ad opera dello scrittore James Barrie. Anche lì vi è un bambino creativo e arrabbiato per la malattia della madre. Lo scrittore (Johnny Depp) funge un po’ da albero cantastorie. Con i suoi giochi e le sue favole fa evadere i ragazzi dalla realtà, ma infine li aiuta anche ad affrontarla.  Idealizzato da Peter, si scoprirà essere pieno di contraddizioni, infantile, fallibile, in quanto uomo e non un personaggio fantastico come quelli da lui stesso creati: come insomma in “Sette minuti dopo mezzanotte”  l’arte diventa il non-luogo (l’isola che non c’è), in cui esorcizzare il dolore, la paura, la rabbia, la morte. Uno scudo per difendersi, un’armatura per essere più forti, per entrare in contatto con la verità delle proprie emozioni e accettarle nel loro essere inevitabilmente contraddittorie e, a volte, distruttive.

Francesco Bellia