La depressione spiegata da Bojack Horseman, un cavallo antropomorfo

Tutti ne parlano, quasi nessuno la critica: BoJack Horseman è la serie d’animazione targata Netflix dove un uomo-cavallo racconta la depressione meglio di qualunque umano della tv.

Tra i meriti di Netflix c’è quello di aver prodotto la serie tv animata BoJack Horseman. Per tre motivi: l’intelligenza di averlo fatto, il coraggio e la riuscita. Uomini e animali antropomorfi convivono in una serie che pur facendo molto ridere parla di depressione, di come le cose riescano sempre a sfuggirci di mano e di quanto ognuno sia il peggior nemico di se stesso. Se non sapete di cosa tratta BoJack Horseman, dovreste certamente aggiornarvi.

BoJack Horseman, nel suo non essere di nicchia ma nemmeno mainstream, è già diventata una serie di culto. Nessuno ne ha parlato male, tutti ne hanno parlato con toni entusiastici.

È opinione condivisa che BoJack sia una delle opere che affronta meglio il tema della depressione.

Ora, va osservato come questa percezione diffusa non appartenga a psicologi esperti ma a giornalisti e critici. Ciò potrebbe per alcuni essere la riprova di quanto questi ultimi aprano bocca a sproposito su temi che non padroneggiano, ma per altri, me compreso, è la conferma dell’eccellenza del vero punto di forza della serie: la sceneggiatura.

Ci vuole qualche puntata per creare l’empatia spettatore-personaggio, ma il legame instaurato diventa indissolubile e totale con lo scorrere degli episodi. Si arriva a osservare la propria infelicità attraverso quella del cavallo BoJack (ma anche degli altri personaggi), facendo riconoscere, nell’iperbole che è un racconto televisivo animato, scampoli di incredibile e lancinante realtà.

Il completamento di questo capolavoro avviene nella terza stagione, dove più le situazioni diventano assurde e più l’immedesimazione si perfeziona, più il mondo “reale” intorno ai personaggi diventa così paradossale da somigliare al loro mondo interiore, più le emozioni sono autentiche e la catarsi dello spettatore si acuisce. Fish out of water e That’s too much, man!, rispettivamente puntata quattro e undici della terza stagione, sono i migliori esempi di quanto detto, due meraviglie assolute.

Che gli sceneggiatori siano particolarmente ispirati lo si può notare anche dalla profondità e dalla caratterizzazione che hanno dato a tutti gli altri personaggi ricorrenti. Nonostante la serie prenda il nome dal suo protagonista, BoJack Horseman è tutt’altro che un “one man (horse) show”. Piuttosto è un’opera corale, certo pensata in funzione della star equina, ma dove i vari Princess CarolynDianeMr. Peanutbutter e Todd, ma anche Sarah Lynn e Charlotte, valgono uno spin-off: tutti hanno una complessità e una storia personale che potrebbero riempire intere stagioni.

Non si finisce di vedere la serie BoJack Horseman (che tra l’altro è stata rinnovata per una quarta stagione) uguali a come si ha iniziato. BJ è una di quelle opere che ti cambia. Dovremmo tutti farci il regalo di vederla, innanzitutto per conoscere un po’ meglio noi stessi (massima antica, ma sempre buona), e per capire ancora una volta quanto sia complicato l’essere umano, quanto la superficie dica poco o addirittura il contrario di quello che è realmente. Così, forse, quando rivedremo un uomo (o un cavallo) eccentrico, alcolizzato e sbruffone alla continua ricerca di attenzioni, prima di liquidarlo con un “coglione”, ci penseremo due volte.

redazione