“Viviamo e moriamo in un mondo razionale e produttivo”
H. Marcuse, L’uomo a una dimensione
Il 23 Aprile 2013, alle ore 13.07, l’agenzia di stampa statunitense Associated Press cinguetta su Twitter che il Presidente Obama è rimasto ferito durante un attentato alla Casa Bianca. L’effetto della notizia incide sui mercati, causando un subitaneo crollo del Dow Jones, che alle 13:08 perde 150 punti, bruciando 136 miliardi di dollari.
Si stabilizza solo alle 13:10, quando inizia a diffondersi la voce che il tweet è un falso. Alle 13:13, il Dow Jones ritorna al livello precedente il crollo. Bisogna aspettare circa un’ora perché il Syrian Electronic Army rivendichi “l’attentato”, affermando di aver piratato l’account Twitter dell’Associated Press, pur senza addurre prove. Sulla responsabilità e sul senso del gesto restano i dubbi, mentre si fa chiara la portata dell’evento: in sei minuti, come per magia, sono spariti e riapparsi miliardi di dollari.
Il 9 maggio 2009 il simbolo JPM (Jp Morgan) viene scambiato 203 volte in una frazione mezzo secondo. In questo lasso di tempo, il prezzo di Jp Morgan cambia 48 volte sul NASDAQ. Come è possibile tanta velocità?
Il fenomeno si chiama High Frequency Trading, ed è una modalità di intervento sui mercati che attraverso software elettronici consente di risparmiare 30 millisecondi di tempo rispetto ai normali software di scambio (trading). Un trader che opera transazioni in alta frequenza, sostanzialmente, ha la possibilità di guadagnare più facilmente comprando e rivendendo azioni, perché ottiene le informazioni con 0,03 secondi di anticipo, cioè vede le transazioni prima degli altri. Il trader che lavora in alta frequenza può intercettare un ordine d’acquisto di titoli e analizzarlo prima che tale ordine sia reso pubblico.
L’ High Frequency Trading costituisce la gran parte delle negoziazioni di importanti banche d’affari. Goldman Sachs, quando nel 2009 subì il furto dei codici d’accesso al proprio software da parte di un ex dipendente, il programmatore di origini russe Sergey Aleynikov, non esitò a lanciare l’allarme: “chi conosce l’uso di questi codici può servirsene per manipolare pericolosamente i mercati” (ironicamente, non si riferivano a loro stessi).
Questo tempo fragile di cui parliamo qui, fatto di millisecondi in grado di produrre o bruciare milioni di dollari, non sembra essere un tempo umano. E’ un tempo di cui solo un software elettronico, attraverso negoziazioni automatiche gestite da algoritmi, può beneficiare. “Il tempo è umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo”, diceva Paul Ricoeur. Il tempo è inconcettualizzabile, è una chimera della ragione. Lo controlliamo solo raccontandolo, solo lavorandoci attraverso le categorie della narrazione.
Si può dominare quel mezzo secondo in cui i trader automatici si giocano milioni di dollari? E’ un tempo che appartiene a chi se ne serve? O non sembra piuttosto delinearsi, sullo sfondo di questa frenesia, l’idea che all’immediatezza corrisponda necessariamente la perdita del controllo?
Il computer viene tarato per rispondere in automatico, in un tempo che agli esseri umani non compete. Il problema è che l’automatismo, per definizione, ha una capacità ridotta di discriminare gli stimoli. Come ci hanno insegnato decine di film di spionaggio, a volte succede che l’ordine non possa essere revocato, e forse è proprio questa paura della perdita del controllo che ha costretto il pensiero del Novecento a problematizzare –nelle più diverse forme- l’annosa questione della tecnica. L’ebbrezza dello sviluppo ci sospinge in questa condizione paradossale: vogliamo arrivare dappertutto, subito, moltiplicare la produttività, dimezzare il tempo, e nel farlo sentiamo incombere la spada di Damocle di un potenziale sfacelo. Si tratta di quello che gli antichi chiamavano cupio dissolvi? Il problema è se la dissoluzione sia un effetto collaterale o l’ancestrale e inconsapevole desiderio che ci sospinge fin dal principio; le banche speculano per guadagnare sapendo che prima o poi la bolla scoppierà: considerano costi e benefici o non riescono a rinunciare al fascino del precipizio?
Forse, semplicemente, in questi casi il gioco vale la candela e un’ustione di primo grado.
L’immediatezza, di cui lo sviluppo tecnologico ci offre oggi l’illusione sotto forme nuove e talvolta inesplorate, fa riferimento a un paradigma antico: l’annullamento delle mediazioni come cifra della verità. Il più semplice dei realismi ci insegna a diffidare delle ombre e a guardare direttamente le cose alla luce del sole, salvo poi dover fare i conti con il fatto che il mondo, questo Altro da noi che se ne sta lì, in sé, ha senso solo perché è per noi che lo vediamo e ne parliamo.
Il problema è ingombrante tanto quanto la storia della filosofia, e quindi ci accontentiamo di sfumarlo. La posta in gioco è importante, perché l’astratta verità che perseguiamo attraverso il mito dell’immediatezza corrisponde a un’istanza pratica molto forte, che è il controllo sulla realtà (quel controllo che al principio ci spinge a costruire le tecnologie e che le tecnologie stesse, come abbiamo visto, a volte ci sottraggono). Attraverso l’immediatezza, lo sviluppo della tecnica ci promette di dominare il mondo mentre minaccia di sottrarcelo. Ma come si annullano le mediazioni? La risposta è più complessa del previsto.
Sembra infatti che più che cancellare il medium preferiamo riformulare la nozione di mondo e, in qualche maniera, metterlo in fuga.
Un esempio banale. La Rete finisce per mediare il nostro rapporto con la realtà che è al di qua dello schermo del computer tanto da costruire una nuova realtà, che è al di là dello schermo e che rivendica una propria autonomia. Si può negare ad internet lo statuto di mondo? Esso, seppur autonomo, influenza le nostre prassi quotidiane. E’ tanto veloce ed immediato, il mondo del web, da rifigurare la nostra esperienza della realtà reale senza concederci la distanza per rendercene conto. Cambia la memoria, i rapporti sociali, le prestazioni della sensibilità. Ci offre l’illusione di una realtà come simulacro, modellabile a piacimento, un nuovo universo in cui Photoshop può combattere Ananke. Stiamo indebolendo l’alterità del mondo? Ce lo stiamo avvicinando? O l’operazione di sdoppiare la nostra esperienza in due realtà apparentemente distinte finisce per farlo scappare via, il mondo reale?
Il fatto pregnante è che in questo ambiente in cui un clic è sufficiente per spalancare spazi mai visti e mai esperibili in nessun altro modo, in questa immediatezza, ci situiamo attraverso una mediazione tanto articolata da richiedere, oltre ai sensi, capacità specifiche, una connessione Internet e un computer.
E’ davvero l’immediatezza la strada per immergersi più profondamente nella realtà, per possederla?
Google non sembra pensarla così.
La tecnologia può farci entrare più a fondo dentro la realtà in cui già siamo solo aumentando quella stessa realtà (ciò che sopra abbiamo definito “riformulare la nostra nozione di mondo”). I Google Glass, occhiali in grado di interagire con l’ambiente circostante scattando fotografie, girando video, facendo videochiamate e andando su internet, promettono di rivoluzionare la nostra esperienza delle cose. Affascinante paradosso: indossare una protesi (gli occhiali) per annullare la distanza, per comunicare, conoscere, elaborare ciò che viviamo immediatamente, cioè in tempo reale. Ecco che ritorna questo tempo inumano e indifferibile che appartiene, forse, solo alla tecnologia. Ritorna nella forma di uno strumento che ha le funzionalità di uno smartphone, ma grazie al comando vocale lascia le mani libere. Peccato che se gli occhiali si fanno carico di tutto il lavoro dell’esperienza, non si capisce cosa dovremmo farci, a quel punto, con le mani libere.
Da un lato, il mito dell’immediatezza viene perseguito con la promessa del profitto e della verità, attraverso un’esperienza che proclama di aumentare il nostro controllo sulla realtà pagando il rischio della perdita del controllo. Dall’altro, l’immediatezza si rivela essere qualcosa che si può ottenere solo attraverso un gioco di mediazioni (un software complesso, dei codici di programmazione, un paio di occhiali).
Qualunque sia lo strumento, o il linguaggio, di cui ci serviamo per tentare di diminuire la distanza che ci separa dal mondo, è bene ricordare che il vedere è una pratica che ha a che fare con la lontananza: quando siamo troppo vicini che non riusciamo a mettere a fuoco.