Il disastro dello shuttle Challenger del 1986

28 gennaio 1986, una data tragica per la storia dell’esplorazione spaziale.

La storia dell’esplorazione spaziale, seppur recente, è costellata (è il caso di dirlo) di incidenti e disastri anche mortali. Dalla cinematografica avaria dell’Apollo 13, agli ignoti astronauti che l’Unione Sovietica avrebbe inviato nello spazio verso morte certa, sembra che a dispetto degli avanzamenti tecnologici e delle sempre più restrittive misure di sicurezza, le catastrofi rimangano inevitabili.

Quello di cui racconteremo oggi su è uno dei suoi incidenti più terribili: quello dello Shuttle Challenger, andato distrutto poco dopo il lancio il 28 gennaio del 1986.

Un’anomalia di alcune componenti di uno dei due razzi a propellente solido (Solid Rocket Booster, o SRB) ha fatto sì che questo si distaccasse, causando un cedimento strutturale dell’intero veicolo.

L’equipaggio era composto di sette persone: il comandante Francis R. Scobee, il pilota Michael J. SmithRonald McNairEllison OnizukaGregory JarvisJudit Resnik e Christa McAuliffe (una civile, selezionata per la missione all’interno del progetto Teacher in Space): tutti hanno perso la vita nell’incidente, anche se il momento e le modalità della morte non sono mai state accertate.

Si può dire che quello del Challenger è stato uno dei disastri più importanti perché l’ampia copertura mediatica data alla missione ne ha fatto immediatamente un caso di rilevanza globale.

Il disastro dello shuttle Challenger: problemi fin dall’inizio

I problemi con la missione STS-51-L, il decimo volo del Challenger che era stato utilizzato fin dal 1983, sono iniziati già prima della partenza vera e propria.

Il lancio sarebbe dovuto avvenire dal Kennedy Space Center in Florida il 22 gennaio. Ritardi nella missione precedente hanno fatto slittare la data di due giorni, e l’impreparazione dei siti di atterraggio di emergenza transoceanici di Dakar e Casablanca hanno richiesto un’ulteriore proroga.

Le previsioni meteorologiche sfavorevoli hanno causato che il lancio fosse di nuovo posticipato al 27 gennaio, e infine un problema con il portello di ingresso ha rimandato la partenza al giorno successivo.

La notte precedente al lancio la temperatura al Kennedy Space Center è scesa fino a –8 °C, e la mattina del 28 gennaio l’intera piattaforma era ricoperta dal ghiaccio, sollevando alcuni dubbi sulla possibilità di effettuare il lancio. Il controllo missione di Houston ha quindi richiesto un ultimo rinvio di due ore, per concedere il tempo alle squadre antighiaccio di liberare la piattaforma, portando l’orario previsto per l’inizio della missione alle 11:38 ora locale (16:38 UTC).

Il decollo dello shuttle Challenger

La tragedia dello shuttle Challenger: 28 gennaio 1986 l’esplosione in diretta TV

Il lancio vero e proprio fu ripreso e trasmesso in diretta dalla CNN, per cui i video ufficiali sono facilmente reperibili online, e si possono seguire le fasi salienti dei 73 secondi di durata della missione, attraverso le immagini e i dialoghi degli astronauti e del controllo missione.

Al tempo T=0 (momento del lancio, ore 11:38:00) i motori principali dello Shuttle erano già accesi, e insieme a questi sono stati avviati i due SRB che avrebbero fornito la spinta necessaria per raggiungere l’orbita. L’elevazione procede come previsto, e a T+28 la potenza dei motori viene ridotta per facilitare l’attraversamento dell’atmosfera più densa.

A T+37 il Challenger viene investito dal più intenso wind shear (una variazione improvvisa del vento in intensità e direzione) mai registrato in tutte le missioni dello Shuttle, che contribuisce a rendere più complicate le operazioni.

A T+60 si può iniziare a scorgere una fuoriuscita di fumo sul SRB destro, e subito dopo è visibile una fiamma sull’esterno del serbatoio. Nonostante fosse evidente che era in corso un’avaria di qualche genere, né l’equipaggio né il controllo missione parvero accorgersene. D’altra parte, anche se il problema fosse stato rilevato allora, non sarebbe stato possibile intervenire in alcun modo.

A T+68 il comandante Scobee conferma l’ordine ricevuto da Houston di dare potenza ai motori.

A T+73 il serbatoio di idrogeno liquido del SRB destro cede, e il razzo ruota su se stesso, portando lo Shuttle su un vettore anomalo. In pochi decimi di secondo, a un’altitudine di oltre 14 chilometri e una velocità superiore a Mach 1.5, le forze aerodinamiche anomale esercitano una forza di 20 g sul veicolo, che poteva sopportare un massimo di 5 g, causandone la disintegrazione.

Dove prima si vedeva lo Shuttle ora appare solo una nuvola di fumo bianco.

I due SRB proseguono il loro volo su traiettorie fuori controllo, mentre detriti di dimensioni varie iniziano a precipitare. È a questo punto del video che si può sentire il controllo missione constatare, in un agghiacciante tono calmo e professionale: “obviously a major mailfunction”.

Poco dopo Houston conferma la perdita del collegamento radio con l’equipaggio, e dai rapporti delle varie unità di controllo si deduce che il Challenger è “esploso”. La NASA mette subito in atto le procedure di sicurezza, tagliano ogni contatto con il mondo esterno e avviando la raccolta dei dati per ricostruire la dinamica dell’incidente e prestare gli eventuali soccorsi.

L'esplosione dello shuttle Challenger

Il disastro dello shuttle Challenger: che cosa è successo?

Questi sono gli eventi come si sono succeduti la mattina del 28 gennaio, quando la visione in diretta dell’imprevedibile catastrofe rendeva impossibile ricavare cause e modalità della perdita dello Shuttle. I fatti sono stati ricostruiti in seguito, attraverso l’analisi incrociata dei video, delle comunicazioni interne ed esterne al Challenger, dei dati di missione raccolti dalle varie stazioni di controllo, e dai relitti recuperati.

Lo Shuttle si trovava in volo sull’Oceano Atlantico al momento della disintegrazione, e i detriti si sono sparsi su una vastissima porzione di mare. Le squadre di recupero sono state attivate non appena la caduta dei frammenti è terminata, e hanno coperto in alcuni mesi un’area di 1600 chilometri quadrati, scandagliando fino a una profondità di oltre 300 metri il fondale marino.

La cabina dell’equipaggio è stata recuperata il 7 marzo, e all’inizio di maggio erano state raccolte 14 tonnellate di detriti, anche se più della metà della massa dello Shuttle è ancora dispersa, e occasionalmente affiora ancora oggi sulle coste della Florida.

Le analisi si sono immediatamente concentrate su quanto restava del SRB di destra, che era stato presto identificato come l’origine del disastro.

Le indagini sono state portate avanti dagli esperti riuniti nella Commissione Presidenziale opportunamente istituita, detta Rogers Commission dal nome del suo presidente, tra i cui membri era presente anche Neil Armstrong. Se all’inizio si credeva che il cedimento fosse dovuto a un problema strutturale del serbatoio esterno, successive analisi hanno portato all’identificazione del difetto negli O-ring che costituiscono la guarnizione nelle giunture dei diversi pezzi dei SRB.

Se la tragedia dei sette astronauti perduti non rendesse terribile la distruzione del Challenger, sarebbe ironico pensare come la più banale delle componenti abbia causato il più devastante dei risultati.

Gli O-ring sono semplici anelli costituiti di un polimero gommoso, che sigillano le giunzioni tra i pezzi dei SRB, che vengono montati direttamente sulla piattaforma di lancio. Le tre giunzioni di ogni SRB sono sigillate da due O-ring, uno primario e uno di backup.

A causa delle basse temperature della notte del 27 gennaio, alcuni ingegneri della stessa Morton Thiokol, l’azienda costruttrice dei SRB, avevano espresso preoccupazione per le condizioni avverse del lancio. Gli O-ring infatti erano testati per funzionare a una temperatura minima di 12 °C, mentre la mattina del 28 gennaio si raggiungevano appena i -1 °C: a questa temperatura, il materiale di cui le guarnizioni sono composte perde quasi interamente la sua resilienza, diventando di fatto un anello rigido inadeguato a contenere eventuali perdite.

Riesaminando i filmati del lancio, si può notare come per un paio di secondi a partire da T+0.678 del fumo grigio fuoriesce dal SRB destro. È stato in seguito stabilito che il fumo è dovuto a una deformazione della carena metallica del SRB in prossimità di una giunzione, che provoca una perdita di gas ad alte temperature (2760 °C).

In realtà si tratta di un fenomeno già riscontrato in altri lanci dello Shuttle, ed è proprio in questa evenienza che gli O-ring si dimostrano fondamentali: la guarnizione primaria avrebbe dovuto scivolare in posizione per sigillare la perdita. Tuttavia, a causa delle basse temperature, sia l’O-ring primario che quello di backup erano diventati talmente duri da non riuscire ad adattarsi alla falla, e sono stati invece vaporizzati dal calore.

Il problema non è stato rilevato perché, contemporaneamente, proprio la fuoriuscita dei gas ha creato un “tappo” di ossido di alluminio, che ha sigillato la perdita al posto delle guarnizioni, facendo tornare tutto nei parametri previsti.

Si può pensare che anche la sfortuna abbia avuto un ruolo nell’evolversi del disastro, e in questo caso la malasorte si è manifestata nel forte wind shear che il veicolo ha incontrato durante la sua ascesa. I bruschi cambiamenti del vento hanno spazzato via il fortuito sigillo di ossido d’alluminio che si era creato sul SRB, e gli esperti affermano che se non fosse stato per il vento il Challenger avrebbe potuto raggiungere l’orbita (dopo essersi liberato degli SRB) senza problemi.

In queste condizioni invece, il veicolo ha perso il suo assetto, e come già spiegato si è disintegrato a causa dell’insopportabile pressione aerodinamica.

Tuttavia, al contrario di quanto possa sembrare osservando le immagini, il Challenger non è “esploso”. La nuvola di fumo visibile è in realtà principalmente semplice vapore acqueo, dovuto al rilascio istantaneo dell’ossigeno e idrogeno liquidi usati come propellente. Lo Shuttle è stato quindi ridotto in pezzi, ma non in seguito a una detonazione.

La cabina dell’equipaggio si è distaccata dal resto ma è rimasta integra, e ha proseguito lungo una traiettoria balistica per altri 25 secondi, prima di iniziare a precipitare. L’ultima comunicazione proveniente dall’equipaggio è stato un “Uh-oh” pronunciato dal pilota Michael J. Smith.

Le scie di vapore dello shuttle Challenger

La disgrazia dello shuttle Challenger: la sorte degli astronauti

Nessuno avrebbe potuto sopravvivere al terribile incidente, ma i tempi e le cause di morte degli astronauti del Challenger non sono certi.

La cabina dell’equipaggio era progettata per riuscire a sopportare circa 5 g. Le stime ricavate in seguito affermano che al momento del distacco dal resto dello Shuttle la cabina può aver subito una spinta dai 12 ai 20 g, ma questo picco è durato pochi secondi, dopo i quali la cabina si è trovata in caduta libera. Se anche alcuni dei sette astronauti possono essere rimasti feriti o storditi in questa fase, è improbabile che siano morti allora.

Inoltre, una volta recuperato il relitto della cabina, è stato accertato che tre dei sette respiratori di emergenza erano stati attivati, e il consumo di ossigeno corrisponde a quello che sarebbe servito durante i quasi tre minuti tra la distruzione dello Shuttle e l’impatto con l’oceano.

Un altro particolare che fa supporre che, almeno inizialmente, alcuni astronauti fossero vivi e coscienti, sono alcuni interruttori della plancia del pilota Smith che sono stati trovati spostati: ognuno di essi richiede un particolare movimento (paragonabile a quello delle manopole del gas casalingo) che previene l’attivazione accidentale, e che, a quanto è stato stabilito, non avrebbe potuto essere provocato né dalla disintegrazione del veicolo né dal contatto con l’acqua.

Se gli astronauti sono rimasti coscienti fino all’impatto finale in mare non è chiaro, e dipende in larga misura dalla capacità della cabina di conservare una pressione interna adeguata. Quello che è certo è che, impattando la superficie oceanica a una velocità di 330 km/h, con una decelerazione superiore alle 200 g, la morte è stata istantanea per tutti.

Di fatto, la collisione è stata così violenta che il relitto recuperato non offre indizi relativi ai danni subiti dalla cabina dopo il distacco e durante la caduta libera. Ma gli indizi fanno inquietantemente supporre che alcuni membri dell’equipaggio fossero ancora coscienti per tutto il tempo.

Alcuni esperti ritengono anzi che il comandante Scobee e il capitano Smith, ignari di quanto era successo, abbiano tentato di ripristinare i sistemi e far volare il veicolo fino all’ultimo, fatale istante.

L'equipaggio dello shuttle Challenger

Il disastro dello shuttle Challenger: le conseguenze

Come nel caso di altri incidenti già trattati qui su LaTelaNera.com, anche il disastro del Challenger ha sollevato immediatamente polemiche molto accese su più fronti. La NASA è stata criticata fin da subito per la reticenza con cui ha evitato di fornire informazioni subito dopo l’incidente, lasciando alla speculazione dei media la descrizione e la spiegazione di quanto accaduto.

Prima ancora che fosse pronta una versione ufficiale dei fatti, praticamente tutto il mondo era a conoscenza della terribile fine dello Shuttle. L’ampia copertura mediatica data all’evento ha fatto sì che l’opinione pubblica mantenesse vivo l’interesse nei confronti della missione, anche dopo il suo catastrofico fallimento.

Alcune ricerche hanno in seguito rilevato che la distruzione del Challenger è stata una delle notizie a più rapida diffusione della storia moderna. Questo può essere anche dovuto al fatto che, a causa della presenza di Christa McAuliffe per il programma “Teacher in Space”, in molte scuole americane agli alunni fu mostrato il lancio in diretta televisiva.

Con il procedere dei lavori della Rogers Commission, l’attenzione si è gradualmente spostata sulle cause dell’avaria e sull’evitabilità del disastro.

Una volta identificata l’origine dell’incidente nell’inadeguatezza degli O-ring, è stata l’azienda Morton Thiokol a essere posta sotto accusa. Tuttavia, nel contenzioso provocato dalla Commissione, è emerso che una parte consistente della responsabilità era da attribuire alla NASA stessa, i cui dirigenti hanno spesso ignorato le regole di sicurezza per poter seguire i tempi di missione prestabiliti.

In particolare, quando prima del lancio gli ingegneri Morton Thiokol hanno espresso i loro dubbi circa le basse temperature, evidenziando proprio la debolezza degli O-ring, la NASA ha sminuito il rischio affermando che nel caso che la guarnizione primaria avesse fallito era comunque presente una guarnizione di backup. Un argomento del genere non era applicabile nel caso degli O-ring, che sono un componente “Criticality 1” (cioè al livello massimo di criticità), per il quale il backup deve fornire ridondanza in caso di avarie impreviste, non sostituire il pezzo primario.

Una foto del volo dello shuttle ChallengerSuccessive indagini hanno dimostrato che il difetto degli O-ring era noto fin dal 1977, ma sia la Morton Thiokol che la NASA avevano ritenuto che si trattasse di un problema trascurabile.

Un altro aspetto fortemente osteggiato fu l’impossibilità di fuga dell’equipaggio, che era di fatto chiuso nella cabina senza alcun modo per uscire, nonostante nei tre minuti trascorsi tra la distruzione e l’impatto con il mare ne avrebbe avuto tutto il tempo.

Secondo la NASA, l’alta affidabilità dei sistemi non rendeva necessario un sistema di fuga, e mentre i sedili eiettabili erano presenti durante i voli sperimentali dello Shuttle, sistemi analoghi sono stati rimossi per le missioni vere e proprie, a causa del loro costo e del notevole spazio che avrebbero richiesto nel compartimento dell’equipaggio.

Dopo il disastro del Challenger, numerosi sistemi di fuga sono stati presi in considerazione, e per la maggior parte scartati per gli stessi motivi. Ma anche in questo caso, gli unici sistemi di fuga integrabili nello Shuttle non avrebbero reso possibile il salvataggio dei sette astronauti del Challenger.

Ma al di là dei difetti di progettazione, a essere messo in discussione è stato soprattutto l’intero processo decisionale della NASA.

Le irrealisticamente ottimistiche previsioni riguardo i parametri di missione, e la leggerezza con cui alcuni particolari (come appunto l’efficacia degli O-rings) venivano ignorati, considerati come rischi accettabili, sono stati indicati dalla Rogers Commission come cause principali del disastro del Challenger.

Al termine dei suoi lavori, la Commissione fornì una relazione in cui le cause dell’incidente erano identificate tanto nei difetti tecnici di progettazione quanto nell’inadeguata comunicazione e affidabilità tra le diverse sezioni della NASA e tra questa e le sue controparti. La Rogers Commission stilò nove “raccomandazioni” che la NASA avrebbe dovuto implementare prima di poter riprendere i propri programmi.

Nonostante il buon esito delle successive missioni dello Shuttle (riprese nel settembre del 1988), il disastro del Columbia nel 2003 ha sollevato di nuovo polemiche nello stesso senso. Le parole con cui Richard Feynman, un fisico della Rogers Commission, ha concluso la sua appendice al rapporto finale, sembrano quindi non essere state recepite nemmeno dopo vent’anni: “For a succesful technology, reality must be take precedence over public relations, for nature cannot be fooled”.

I resti recuperati dello shuttle Challenger

redazione