Clint Eastwood torna nella doppia veste di attore e regista (non succedeva da Gran Torino del 2008) con il suo nuovo film The Mule, il corriere (2019), un road movie in cui il regista trae spunto dalla vera storia di Leo Sharp (interpretato dallo stesso Eastwood), un quasi novantenne veterano di guerra, che, dopo il fallimento della sua attività di floricoltore, divenne corriere della droga per un influente cartello messicano; assunse il nome di Tata (Vecchio) e fu scoperto e arrestato dalla Dea soltanto dopo aver effettuato molte corse e aver trasportato ingenti quantità di droga dal Messico agli Stati Uniti.
La vicenda reale è solo un punto di inizio su cui Eastwood costruisce un suo personale racconto, romanzando molto il materiale di partenza, per arrivare a temi precisi, inseriti all’interno della narrazione.
Il Corriere, infatti, è un film che si interroga sui rimpianti e sulla riscoperta tardiva degli affetti. Non un thriller o un noir (generi in cui Eastwood è comunque un maestro), ma un road movie, in cui la personalità del protagonista è perfettamente in linea con il suo modo stravagante, ma efficace di essere un corriere della droga. Invece che essere allarmato dalla pericolosità del carico in suo possesso, infatti, l’uomo è estremamente tranquillo e a suo agio in un’attività che compie abbastanza superficialmente, girovagando per il confine, piuttosto che seguendo tappe, orari e scadenze ben precise.
La verità è che egli si comporta come si è comportato durante tutta la sua vita: invece che fermarsi in un luogo, preferisce viaggiare di continuo assecondando il suo spirito inquieto e avventuroso, che lo porta a concentrarsi su proprie attività, che siano la floricoltura o, dopo il fallimento di quest’ultima (a causa delle vendite on line che hanno soppiantato il mercato reale, motivo per cui il protagonista odia la tecnonolgia), il traffico della droga. Ciò che emerge dalla descrizione di questa sua “seconda giovinezza”, è che egli, in fondo, è sempre in cerca di una scusa, per non fermarsi da nessuna parte, per non dedicarsi agli affetti che lo circondano, preferendo concentrarsi sullo svolgimento di “compiti” che lo stimolino e lo rendano grande agli occhi degli altri. La floricoltura prima, il mercato della droga poi sono modi per affermarsi nel mondo e per avere riconosciuto un ruolo sociale di prestigio (come confesserà alla moglie nella parte finale del film).
Poco importa se ciò sia legale o meno e la ragione del traffico illecito non può dirsi nemmeno economica. Il Tata non fa il corriere tanto per denaro, che spesso destina agli altri, come per la ricostruzione di un club di veterani distrutto in un incendio, quanto per per il gusto di trasgredire e di essere riconosciuto dalla comunità come “uno che conta”.
Questa suo personale modo di condurre la sua vita lo porta come si diceva ad essere evanescente in famiglia, comportandosi appunto come un corriere, in grado di fare solo qualche sosta in mezzo agli affetti, che al contrario ripongono, o hanno riposto in lui grandi aspettative, puntualmente deluse. Il regista, nel delineare la personalità di questo originale e arzillo vecchietto, ironizza, facendo emergere come egli “se la spassi” nell’essere un corriere, trasmettendo ottimismo perfino ai narcos inquieti e nervosi che lo circondano.
La sua stravaganza e allegria però nasconde un’irrequietezza che tende farlo agire piuttosto che riflettere su se stesso. Pian piano però, durante le numerose corse, e una rapida escalation, per cui diventa il principale corriere della droga di un famigerato cartello messicano, grazie alla sua esperienza, alla sua imprevedibilità e al suo essere insospettabile, il vecchio prende coscienza dei suoi sbagli e delle sue mancanze; anche se è restio a riconoscerle e viaggia appunto per non pensarvi.
Nel finale cercherà di porvi qualche rimedio, ma la sua contraddizione rimarrà fino all’ultimo, tanto che preferirà l’isolamento e la condanna, al tentativo seppure arduo di recuperare gli affetti. Come si evince da quanto detto Il corriere è un film psicologico, una personale riflessione del regista sulla vecchiaia e l’amarezza dei rimpianti. Un buon film, anche se non il migliore del regista, soprattutto per il ritmo, che è volutamente più pacato.
Se si pensa ad altre pellicole dell’autore ci si accorge di come in The mule, manchi quella dimensione thriller presente nella maggior parte dei lavori del regista, che è parte integrante del fascino del suo cinema. Anche in Sully ad esempio si parte da una vicenda vera: un pilota americano che compì un ammaraggio sul fiume Hudson e fu indagato proprio per aver compiuto la scelta di atterrare sull’acqua; ma lo stile del film è ben diverso, perché la pellicola si alimenta degli incubi e dei dubbi del protagonista (Tom Hanks), creando tensione nello spettatore.
In Un mondo perfetto, anche quello un road movie, abbiamo un delinquente evaso di prigione, che fa amicizia con un bambino. Il protagonista, interpretato da Kevin Costner, è ambiguo, non si capisce bene se sia buono o cattivo, un po’ come tutti i personaggi del cinema di Eastwood (tra cui anche il Tata); ma l’ambiguità tra bene e male viene utilizzata dal regista come meccanismo di suspance durante tutto il film, componente che come si diceva è molto stemperata in The Mule.
Allo stesso modo in Gran Torino, un vero e proprio western moderno (in cui grande importanza è rivestita dall’auto del titolo), l’amicizia tra un vecchio scorbutico e pseudo-razzista e un ragazzo messicano, si svolge in mezzo alla violenza e alla tensione dello scontro tra spietate gang giovanili.
In The Mule la minaccia dei narcotrafficanti è a dir poco stemperata e non è molto importante, come non lo è in fondo la presenza della polizia. Al centro stanno il Corriere e la sua vita, una riflessione personale, chissà, forse anche autobiografica del regista, che dopo tanti anni ha deciso di interpretare ancora un ruolo in carne ed ossa in suo film, molto vicino tra l’altro alla sua età anagrafica.