E’ sempre parlando della duplicità dell’ essere contemporanemanete eroi e antieroi, che Clint Eastwood, dall’alto dei suoi 86 anni, torna al cinema con la sua nuova pellicola “Sully”. Come nel precedente “American Sniper” si racconta una storia vera: quella del pilota Chesley Sullenberger ( Sully), che nel 2009 , durante un volo di linea partito da New York, in seguito a gravi avarie ai motori fu costretto ad effettuare un ammaraggio di emergenza sul fiume Hudson, con una manovra da molti considerata quasi impossibile (tanto che i media riportarono il fatto come “il miracolo dell’Hudson”) senza provocare neanche una vittima tra i 155 passeggeri a bordo. Un eroe senza macchia si direbbe, ma il regista contraddice fin da subito questa visione, strutturando l’opera come un thriller psicologico che si alimenta attraverso i dubbi del protagonista (un solido Tom Hanks).
E’ con uno dei suoi incubi che si apre il film. La paura si schiantarsi, che Sully, pilota con grande esperienza, sente ancora su di se, nonostante si sia appena salvato dal disastro; ma soprattutto (questa l’idea chiave dell’opera) il terrore di essere lui stesso la causa del potenziale incidente che sarebbe potuto scaturire da una manovra tanto azzardata quale quella di un ammaraggio. Non ha nemmeno il tempo di riprendersi dal pericolo scampato, infatti, che viene subito sottoposto ad indagine e viene messa in dubbio la sua capacità decisionale. La commissione contesta la sua risoluzione di tentare un atterraggio estremo, invece che dirigersi in un altro aeroporto vicino che gli era stato indicato, da lui ritenuto impraticabile, ma che secondo i simulatori di volo sarebbe stato molto più semplice da raggiungere.
Così mentre l’America lo acclama come un salvatore, Sully è costretto a fare i conti con la sua coscienza, con le sue decisioni e con il dubbio di aver compiuto una scelta incauta e pericolosa. Di essere stato tradito da se stesso, proprio lì dove non avrebbe mai creduto fosse possibile: su un aereo , dove ha passato gran parte della sua vita. Come dirà lo stesso pilota nel film egli rischia di essere giudicato per 102 minuti invece che per i suoi 48 anni di servizio.
L’angoscia di non essere un eroe come tutti dicono, ma al contrario un inetto, una profonda inquietudine che rievoca (con le dovute differenze) quella del protagonista di American Spiner. Nel penultimo film del regista Bradley Cooper interpreta un cecchino infallibile impegnato nella lotta in Iraq contro i terroristi, che grazie alla sua abilità riesce a scongiurare molti attacchi nemici e a salvare molte vite, ma che, allo stesso tempo uccide un numero elevatissimo di persone, anche donne e bambini. E’ lo stesso uomo, che tutti onorano come un eroe, che una volta tornato a casa, non sa godersi la tranquillità della vita con la sua famiglia, e rimpiange l’ossessività mortifera delle operazioni di guerra, provando poi un forte senso di colpa per questo.
In bilico tra eroi e antieroi i due protagonisti si somigliano. In “Sully” certamente il discorso è più sottile e meno “torbido”: l’ambivalenza è più interiore che reale, come rivelerà il finale del film; ma Eastwood non è nuovo a questo tema. In fondo anche in Gran Torino c’è un rovesciamento: il vecchio scorbutico e “razzista” si dimostra poi un eroe, molto più comprensivo e paterno di tutti gli altri “simili” che attorniano il giovane ragazzo. E’ così, con un cambio repentino che i personaggi dell’autore mostrano le loro oscurità recondite, oppure la loro bontà nascosta, come gli “Spietati” nel suo celebre western, che da uomini pacifici quali sembrano all’inizio recuperano ai fini di una giustizia-vendetta l’efferata violenza che aveva marchiato il loro passato, o il delinquente di “Un mondo Perfetto”, che durante un’ evasione riscopre il suo senso di paternità prendendosi cura di un bambino, o il regista di “Cacciatore bianco cuore nero” più interessato ad uccidere animali sacri, che a girare il film per cui si è recato in Africa.
Ritornando a Sully, il cineasta costruisce l’opera con grande abilità registica. I ricordi del pilota, i suoi incubi, anche ad occhi aperti, il suo straniamento, rendono senza alcuna banalizzazione l’angoscia di questo uomo “retto”, che crede nel suo lavoro e nelle sue capacità, spazzate via all’improvviso da un’ insicurezza che non puo’ dargli pace. Nella scena in cui egli affacciandosi dalla finestra immagina l’aereo schiantarsi contro i palazzi di New York, la mente dello spettatore corre subito all’11 settembre, un’ombra oscura che aleggia sul passato, la grande paura che l’America non ha mai superato del tutto, rievocata da una singola scena con un’abilità visiva che testimonia come Eastwood abbia saputo sfruttare al meglio gli effetti speciali a sua disposizione e soprattutto la tecnologia IMAX, che permette un’altissima definizione delle immagini (è il primo film ad essere girato interamente in questo modo).
L’ammaraggio viene ricostruito punto per punto con un realismo tale, da lasciare impressionati. Il regista lo inquadra non solo dalla prospettiva del pilota, ma anche da quello dei passeggeri e dei soccorritori, con un moltiplicarsi armonico dei punti di vista che si completano a vicenda. Il trauma viene ricostruito più volte, da varie angolazioni e ogni volta si aggiunge un nuovo tassello non solo visivo ma anche emozionale. Il tono austero della pellicola rende la suspance ancora più efficace. La verosimiglianza è resa talmente bene, grazie alla nitidezza della fotografia che è impossibile non immedesimarsi nella vicenda dei passeggeri e del pilota. Le dinamiche dell’aereo sembrano reali e non frutto di finzione filmica. Tanto che viene da pensare che una cosa del genere sarebbe potuta capitare a chiunque. La tensione è palpabile per tutto il film ed è arricchita da un’articolata descrizione psicologica dei personaggi. Equilibrato anche il finale, con il processo a Sully che riascolta la registrazione di quanto vissuto all’interno dell’aereo, delineando la versione definitiva dell’incidente, al quale, infine, sa conferire il vero significato, quello che aveva cercato durante tutto il film.
Con questa nuova pellicola nella sua lunga e significativa carriera Eastwood, mostra una maturità registica che stupisce ancora. Da una storia che poteva essere patetica e scontata trae un racconto sfaccettato e convincente, che pone, come sempre nel suo cinema, interessanti interrogativi.
Il tema affrontato ricorda tra l’altro il recente “Flight” di Robert Zemeckis. Anche qui, un pilota (Denzel Washington) riesce a salvare molte vite grazie ad una manovra d’emergenza, quasi miracolosa. Viene acclamato come eroe, ma presto iniziano le indagini a suo carico. Vi è il sospetto infatti che egli non fosse lucido al momento dell’operazione, ma che al contrario fosse sotto l’effetto di droghe e alcol. Film sulla dipendenza, dai toni decisamente più maledetti e disperati, è un noir amaro con ottimi interpreti che gioca con ferocia sul dualismo eroe-antieroe, forte di grande suspance nel ricostruire le dinamiche del disastro aereo e delle sue vittime, alternandole al resoconto della vita dissoluta e disillusa del protagonista.