In anteprima italiana al FEFF22 (Far East Festival) di Udine, la cui 22 edizione è ospitata sulla piattaforma My Movies, Gundala è un sorprendente cinecomic made in Indonesia per la regia di Joko Anwar, tra i più acclamati registi indonesiani contemporanei. Più volte selezionato al FEFF, ha esordito nel lungometraggio nel 2005 con Joni’s Promise e nel 2017 ha firmato il più grande successo horror indonesiano degli ultimi anni, Satan’s Slaves
Tratto dall’omonimo fumetto indonesiano del fumettista Hashi, che lo creò nel 1969, il film porta per la prima volta sullo schermo un supereroe indonesiano facente parte dell’universo Bumilangit (equivalente indonesiano della Marvel). Si tratta di un’operazione ambiziosa che viene realizzata tramite una pellicola originale, pregevole, sorprendente sotto diversi punti di vista, soprattutto al livello di trama e di psicologia dei personaggi.
Ascrivibile più ad un cinecomic d’autore, che ad un’opera commerciale, infatti, il film si presenta fin da subito come una comic story dura, schietta, drammatica, a tratti di una singolare ironia: un racconto che lungi dall’essere riferibile ad un contesto astratto o generico, quale potrebbe essere la Terra per gli Avengers che sono incaricati di difenderla, Gundala mostra fin da subito una spiccata componente di denuncia sociale, con un ancoraggio fortissimo al territorio indonesiano, senza per questo essere didascalico o far venir meno l’interesse per la storia raccontata, che è molto adulta e tutt’altro che puerile.
Il supereroe protagonista, infatti, è figlio della povertà, del dolore, delle sopraffazioni e delle logiche spietate di Giacarta, che il regista presenta come una sorta di Gotham City, una città corrotta, polverosa e opaca, in cui i deboli sono sopraffatti dai più forti. Senza genitori, come Bruce Wane, ma decisamente sprovvisto del suo immenso patrimonio e dei suoi agi, il protagonista Sancaka (interpretato da Abimana Aryasatya), fin da bambino impara la dura vita del randagio. Ispirato dalla forte etica del padre, un lavoratore che si batteva contro gli sfruttamenti dei datori delle fabbriche, egli apprende per strada l’arte della lotta, che nella pellicola è rappresentata dalla potente e armonica arte marziale del pencak silat, tipica indonesiana, cui la regia rende davvero giustizia attraverso coreografia e movimenti di macchina ben realizzati, un’arte marziale che egli utilizza per difendere i più deboli, anche se questi suoi sbalzi altruistici spesso gli causano pesanti ripercussioni.
Dotato di un potere nascosto, che scoprirà nel corso del film, egli dovrà vedersela con Pengkor, un villain davvero notevole,la cui caratterizzazione è uno degli aspetti migliori del film: un malvagio memorabile, che pur non avendo superpoteri, ha una mente brillante e manipolativa, oltre che una psiche a dir poco contorta e disturbata.
Si tratta di una nemesi non comune, interpretata con grande carisma dall’attore Bront Palarae. Anch’egli orfano di Giacarta, in seguito ad un incendio che gli ha deturpato il volto e ha ucciso la sua famiglia, Pengkor è il boss criminale della città. Mellifluo , permaloso e sadico recluta giovani criminali negli orfanotrofi ed è per questo ritenuto come un Padre dai suoi adepti.
I suoi piani, come si scoprirà nel corso del film, sono oscuri quanto la sua deviata psiche: utilizzare la tecnologia e la magia per distruggere la speranza di un futuro migliore per le nuove generazioni, condannandole ad essere incattivite, sofferenti, povere e criminali, come lo è stato lui, una sorta di vendetta personale contro Giacarta che lo ha reso storpio, bruciato e insensibile. L’abnorme potere di tale malvagio, padrone indiscusso di tutte le operazioni criminali, quasi un Joker indonesiano, sebbene sia meno folle e ben più lucido e programmatico nel perseguire i suoi sinistri scopi (un vero e proprio istigatore), dovrà essere contrastato dal nostro eroe emergente.
Privo di tutti gli orpelli scenici e degli effetti speciali dei cinecomic americani (anche per il ridotto budget) Gundala sa ben difendersi nella componente action, grazie agli scontri di pencak silat che lo animano (ne abbiamo parlato anche in questo articolo, su The Raid). A ciò bisogna aggiungere l’equilibrio della sceneggiatura che come si diceva fa leva sulla psicologia dell’eroe e della sua nemesi, nonché su quella collettiva del popolo e delle autorità legislative, che vorrebbero ribellarsi alla corruzione, ma non hanno sempre la forza e il coraggio di farlo.
In questo ottica sociale il personaggio di Pengkor diventa potente metafora di una Gicarta che corrompe e che alimenta la sofferenza, i sorprusi; mentre Sancaka (Gundala) è la speranza del cambiamento, un grande potere (che pure non è illimitato), affidato ad un protagonista umile, che pur avendo sofferto come Pengkor vuole evitare la sofferenza degli altri, piuttosto che infliggergliela.
Echi di Spiderman, dall’umiltà del protagonista, al suo senso di responsabilità verso il prossimo, fino al forte legame che lega Sancaka a Giacrta (come Spidy a New York) e alla gente che vi vive. Con intelligenza, tecnica, coraggio e originalità Joko Anwar trasforma un cinecomic in un film di denuncia sociale, che intrattiene per la sua intrigante trama e i singolari personaggi, ma sa anche denunciare la corruzione, la povertà e i problemi sociali che affliggono la città.
Il finale, sebbene compiuto, fa intendere l’apertura verso un possibile sequel, ben più epico del primo. Le premesse ci sono tutte, considerando la positività di quanto visto nel primo episodio.