Blanco En Blanco: Venezia 76 premia il ricordo dei Selknam

Premiato con il Premio alla migliore regia nella sezione Orizzonti della Mostra del cinema di Venezia 76 (Sezione dedicata a registi che concorrono con opere prime o seconde), Blanco en Blanco di Théo  Court , regista spagnolo-cileno, è un film simbolico, che adotta il punto di vista di Pedro (Alfredo Castro), il fotografo protagonista della pellicola, raccontando, attraverso una personale prospettiva registica il massacro, purtroppo poco conosciuto, dei Selknam, una popolazione di Nativi Americani che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento furono sterminati nella Terra del Fuoco, per opera del governo argentino e cileno, i quali attuarono un genocidio programmato, volto ad estinguere definitivamente tali popolazioni e la loro discendenza.

Tra i principali fautori di questo massacro Julius Popper, conquistadores e dittatore nella Terra del Fuoco. E’ proprio Popper, nel film sign.Porter, a chiamare il protagonista della pellicola, Pedro, un fotografo professionista, per commissionargli un servizio fotografico sulla sua futura moglie e sull’imminente matrimonio. Come si diceva Blanco en Blanco è un film che adotta la prospettiva fotografica e contemplativa del protagonista, il quale raggiunge questa terra innevata, “blanca”, ma tutt’altro che pura o accogliente.

Fin da subito il suo arrivo è segnato dall’incomunicabilità e dalla mancanza di contatto. Il signor Porter non lo riceve personalmente e lo confina in una casupola, non troppo distante dalla sua grande e opprimente villa. Come un fantasma però la figura del signore della Terra del fuoco aleggia su tutti i suoi possedimenti, un regno freddo, spoglio, quasi privo di calore, in cui gli abitanti si aggirano senza scopo, come violenti fantasmi e proprietari assenti di una terra grigia, contraddittoria, quasi intangibile, di cui sembra difficile perfino stimare il valore. Eppure sono disposti a tutto per averla, sterminare vacuamente i Nativi che la abitano, indifesi e in qualche modo affascinanti anche per gli uomini armati che li devono uccidere.

E’ in questo contesto nebbioso e innevato che Pedro assume il ruolo di uno strano voyeur, un’artista in un mondo di barbarie che si sforza di trovare la bellezza anche in questi confini estremi del mondo. E’ l’unico che riesce a trovarla. Per prima cosa la trova nella futura moglie di Porter, che deve fotografare: presto scopre che si tratta di una bambina. Non è casuale la scelta del regista. Pedro è ossessivamente attratto dalla ragazzina: un’attrazione artistica non sessuale, che è chiaramente metafora di qualcos’altro.

Sara è la sposa vestita di bianco nel bianco innevato della Terra del fuoco. E’ bianco su bianco (Blanco en Blanco), purezza assoluta in un mondo dispotico e in declino. L’attenzione che Pedro ha per la luce che modella il volto della ragazza nelle fotografie che intende scattare, è proprio la ricerca dell’artista che vuole catturare la purezza e la bellezza di una giovanissima sposa vergine, come La Terra del Fuoco, destinata ad unirsi con un tiranno, distante, perennemente occupato nel perpetuare il suo massacro.

Bianco è pero anche il colore dell’oblio: con un gioco simbolico il regista ci ricorda che lo sterminio dei Selknam è stato dimenticato da tutti, non lascia traccia come una pittura bianca su un foglio bianco… Le uniche testimonianze sono delle fotografie di un anonimo fotografo. 

Quando ho visto per la prima volta le foto del massacro del popolo Selknam, perpetrato da Julius Popper nella Terra del Fuoco, mi sono posto innumerevoli domande: chi ha scattato queste foto? Chi ha preso parte a questi eventi come invisibile voyeur?”

E’ proprio questo l’interrogativo che sta alla base del film, come dichiarato dall’autore Theo Curt. Tutto il film, coi suoi tempi dilatati, l’attenzione per i campi lunghi e statici, piuttosto che sul dinamismo dell’immagini, la quasi assenza di primi piani, con prevalenza di figure che si inseriscono nello spazio, dando più rilevanza a quest’ultimo, piuttosto ai particolari umani, rispecchia l’occhio fotografico di chi ha osservato queste terre e le ha immortalate.

La violenza non è rappresentata direttamente, ma sempre in modo freddo, a distanza, nonostante la ferocia degli uomini di Porter: così ad esempio il taglio delle orecchie che i conquistadores dovevano portare per testimoniare l’uccisione degli indiani, pagate a peso d’oro (vicenda reale e testimoniata da fotografie) è ripreso da lontano. Bello il parallelismo con cui sul finale Pedro fotografa in modo maniacale l’ultima traccia dello sterminio degli indiani, quasi a voler dare loro una sepoltura fotografica. Egli pone la stessa attenzione che aveva nel fotografare la purezza di Sara, simbolo di come la giovane sposa di Porter sia pura come i Selknam trucidati dai conquistadores.

Nel complesso Blanco en Blanco è un film elaborato che sfrutta molto la fotografia, le sue regole e la modellazione della luce per raccontare una terribile strage (legittimo dunque il premio alla miglior regia). Un racconto in cui la violenza è indiretta, seppure palpabile. Interessante il ruolo di Pedro che ricorda vagamente quello dell’Agrimensore kafkiano ne il Castello, in cui il protagonista, seppure faccia il suo dovere, non raggiungerà mai chi gli ha commissionato l’incarico, simbolo dell’irraggiungibilità del potere, che fa da padrona anche nel film di Theo Curt, nella sua prima parte, quando Porter è un vero e proprio miraggio per il protagonista.

Francesco Bellia