Venezia 74. Sweet Country: il western australiano di Warwick Thornton

Quasi cinque minuti di applausi al termine della proiezione in “Sala Grande”, per il western australianoSweet Country”, in concorso a Venezia 74. Un’opera equilibrata quella del regista Warwick Thornton, già vincitore a Cannes nel 2009 con “Samson & Delilah” (Camera d’oro per la migliore opera prima), che in questo nuovo film interpreta con mestiere il genere western e ambienta la sua pellicola nelle terre selvagge e inesplorate dell’Australia.

In un paese senza nome e senza legge, in cui non esistono tribunali, né chiese, ma solo terre da coltivare, proprietà e patiboli, si trasferisce un nuovo “vicino” Harry March. Si tratta di un uomo bianco, ex membro dell’esercito, che ha da poco preso possesso di una proprietà. Da solo nel suo ranch, chiede aiuto alla fattoria confinante, appartenente a Fred Smith, interpretato da Sam Neill (che molti ricorderanno per “Jurassic Park”), un uomo religioso, una vera e propria eccezione nel paese, che tratta i suoi servitori aborigeni come dei pari ed è contrario al razzismo.

Per osservare il buon rapporto di vicinato, Fred incarica il suo aiutante nero Sam Kelly (Hamilton Morris) di aiutare, assieme a sua moglie e a sua figlia, Harry March nel rassettare la fattoria del nuovo venuto. L’uomo bianco, alcolista,  mai uscito del tutto dalla dimensione della guerra (fa il saluto col fucile ogni notte, come se questa non fosse ancora finita), mostrerà ben presto di avere intenzioni tutt’altro che pacifiche, soprattutto nei confronti dell’aborigeno Sam Kelly e della sua famiglia, che ritiene inferiori e quindi degni di qualsiasi trattamento. La violenza di quest’uomo innescherà reazioni a catena che porteranno Sam Kelly a reagire per difendersi. Non appena verrà scoperto che un uomo nero ha ucciso un bianco, il sergente del luogo, Fletcher, si mobiliterà per catturarlo e fare giustizia, inseguendo il fuggiasco attraverso terre aspre e sconosciute, popolate da tribù selvagge di aborigeni.

E’ chiaro come la “dolce terra” del titolo sia un’espressione caustica per definire al contrario la durezza della cornice intorno alla quale si svolge la vicenda dell’aborigeno Kelly, vero protagonista del film. Il regista è consapevole della forza scenica delle location in cui ha scelto di girare e sfrutta al massimo la fotografia per immortalarle e far parlare loro, piuttosto che i suoi personaggi, abbastanza silenziosi. 

Attraverso brevi e secchi flashback e flashfoward, esclusivamente visivi, movimenta il suo film, tenendo sempre bene in mano le briglie della narrazione. Nessuna sbavatura. Tutto è lineare, in una linearità accurata che incuriosisce ed è lontana dall’annoiare.  Non si avverte nemmeno la mancanza di una colonna sonora, presente solo nel finale.  L’altro punto forte del film sono i personaggi, soprattutto quelli interpretati dagli attori aborigeni. In perfetto stile western il regista è molto attento a coglierne i gesti, le azioni e gli sguardi. Ognuno di essi rappresenta un diverso modo di approcciarsi alla propria terra. C’è Sam Kelly, che è l’aborigeno “moderno”, che non è disposto a subire angherie dai bianchi, ma vuole anzi ribellarsi e chiedere giustizia per se stesso e la sua famiglia; c’è John, che, invece, è un “segugio” al servizio dei bianchi, che non li contraddice mai, anzi ragiona esattamente come loro; c’è Philomac che si ritrova in mezzo tra le due culture: quella bianca e quella aborigena.

L’omicidio di un bianco da parte di un uomo nero porta in luce anche le posizioni dei bianchi: dal più estremo Fletcher, disposto ad inseguire dappertutto l’aborigeno colpevole, a Fred Smith, sostenitore dell’uguaglianza delle due razze, fino a Mick Kennedy, razzista più nell’apparenza che nella sostanza. Questo accostamento tra le due etnie è dato anche dalla doppia lingua del film: inglese e arrernte (lingua aborigena).

 Notevole la scena del processo a Sam Kelly, tenutosi  all’aperto, in mancanza di strutture adatte, con l’imputato e i testimoni seduti sulle sdraio su cui prima si guardava il cinema all’aperto. Il regista segue nel dettaglio questi passaggi, che rivelano poi molti elementi non detti del film, dato che i personaggi sono costretti dal giudice a parlare.

Nel complesso Warwick Thornton dimostra di possedere bene il senso della narrazione western  (che nasce come narrazione psicologica). I personaggi sono ben orchestrati e il risultato è un film stabile, originale per le sue ambientazioni atipiche, ma soprattutto per il fatto di avere reso gli aborigeni protagonisti. La genuinità del racconto (ispirato ad una vicenda veramente accaduta) è un altro pezzo forte del film. Lo spettatore si immedesima in questa vicenda arida e secca come il deserto, fatta di schiavitù, ma anche di spazi incontaminati e remoti, i soli in cui forse è possibile davvero essere liberi e davvero in contatto con la propria terra.

Francesco Bellia