Diventare cannibali per salvarsi la vita: lo schianto sulle Ande

Negli ultimi tempi vanno molto di moda i reality estremi, in cui i soggetti vengono abbandonati in luoghi assurdi e devono sopravvivere per giorni senza le comodità di ogni giorno.
Questo racconto invece è uno di quei casi in cui le persone hanno rischiato (e alcune hanno perso) la propria vita e si sono trovate davanti ad un atroce dilemma che ha segnato per sempre le loro anime.

Il 13 ottobre del 1972 avvenne una drammatica sciagura aerea sulla cordigliera delle Ande, che impressionò e sconvolse il mondo intero: un velivolo che trasportava 45 persone si schiantò a 3657 metri d’altezza contro un vulcano. 12 passeggeri morirono nell’impatto, 5 il giorno stesso a causa delle ferite e 1 il secondo giorno per gravi danni interni.

Dopo circa 70 giorni vennero ritrovati e tratti in salvo. 70 giorni! Un bel po’ di tempo, no? Oltre due mesi di disperazione in cui i sopravvissuti erano dispersi sopra la cime di una montagna in condizioni estreme senza avere nessun soccorso. Solo 16 persone scamparono alla morte e il gruppo confessò che per sopravvivere si cibò dei cadaveri dei loro compagni.

Il volo trasportava una squadra rugby uruguaiana con i rispettivi allenatori, parenti e amici. Il 13 ottobre l’aereo decollò, ma un errore di volo sulla rotta fece finire l’aereo in mezzo alla Cordigliera. Quando le nuvole si diradarono l’equipaggio si rese conto di essere vicinissimo alle vette delle montagne. Il pilota tentò con una manovra di emergenza di rialzare l’aereo, ma l’ala destra dell’aereo colpì la cima di una montagna a circa 4200 metri di quota.

Fortunatamente (si fa per dire) l’aereo cadde parallelo su un ripido pendio e scivolò lungo di esso per circa due chilometri, diminuendo gradualmente la sua velocità fino a fermarsi nella neve con un violento impatto.  Immaginate l’orrore e il grave stato psicologico a cui furono sottoposti i passeggeri fin da quel giorno. Il delirio e il panico presero il sopravvento e uno dei sopravvissuti chiamato Fernando Parrado, creduto morto, venne lasciato per tutta la notte all’aperto per poi scoprire il giorno dopo che era ancora vivo. Il gruppo si accamparono alla meglio nei pressi dei rottami dell’aereo. Fiduciosi che in poche ore qualcuno li avrebbe rintracciati accantonarono le scorte trovate nella stiva in una tenda di emergenza e si apprestarono a fornire aiuto ai più bisognosi.

Ma nessuno si fece vivo il secondo giorno, né il terzo, né per tutti quelli che seguirono. L’aereo sparì dal radar molto prima dell’impatto e a causa di un back-out che colpì la torre di controllo durante il volo non fu possibile ricavare dati attendibili sulla reale posizione dell’aereo.

Durante i primi giorni i sopravvissuti consumarono cioccolato, caramelle e biscotti che erano presenti a bordo dell’aereo e si dissetarono succhiando direttamente la neve. Dopo essersi accorti che l’acqua ghiacciata bevuta direttamente dalla neve provocava disturbi intestinali, l’acqua venne ricavata lasciandola sciogliere in lamiere di alluminio per incanalare il calore del sole. Quando le scorte di cibo finirono i sopravvissuti furono costretti dalle circostanze a cibarsi dei cadaveri dei loro compagni morti, che avevano seppellito nella neve vicino all’aereo.

Ma la sfortuna dei sopravvissuti era tutt’altro che finita. La notte del 29 ottobre, sedici giorni dopo lo schianto, una valanga travolse la carcassa dell’aereo nella quale dormiva il gruppo. Altri 8 morirono quella notte e una parte della fusoliera precipitò a valle privando il resto del gruppo del riparo dal freddo.

Nei giorni successivi le condizioni proibitive del luogo portò alla morte altre 3 persone finché, nella disperazione più totale, tre volontari decisero di scendere a valle a cercare aiuto, nonostante si trovassero sull’orlo di un precipizio e nessuno di loro era un abile scalatore.

Il 12 dicembre 1972 Parrado, Canessa e Vizintin iniziarono il loro viaggio per raggiungere il Cile a piedi e chiedere soccorsi. Vizintin però dovette ritornare alla carcassa dell’aereo poiché i viveri che si erano portati bastavano solo per due persone. Dopo dieci giorni di marcia i due sopravvissuti incontrarono dei mandriani che li sfamarono con pagnotte di pane e li aiutarono a chiamare i soccorsi.

Lo stesso giorno partì una spedizione di soccorso con due elicotteri. Parrado salì sull’elicottero dei soccorritori per dirigerli fino al punto in cui si trovava la carcassa dell’aereo. Tutti e 16 superstiti vennero salvati e condotti in ospedale con sintomi di insufficienza respiratoria da alta montagna, disidratazione, traumi e malnutrizione, ma sicuramente stavano meglio di quanto si sarebbe potuto prevedere, nonostante alcuni avessero perso fino a 40 kg.

Nel 1993 Frank Wilson Marshall girò una pellicola cinematografica intitolata “Alive – Sopravvissuti“, basata sui racconti dei superstiti del disastro aereo delle Ande. Esiste anche un altro film del 1976: “I sopravvissuti delle Ande” di René Cardona, sempre ispirata a questa terribile storia che solo in pochi hanno potuto raccontare.

redazione