Nella letteratura precedente ad Alessandro Manzoni, la fame era una caratteristica dei più poveri e veniva spesso trattata con risvolti comici. Il tema del cibo nei Promessi Sposi, invece, viene trattato in maniera del tutto differente, con serietà e dignità: la carestia, ad esempio, assume importanza non solo nei suoi risvolti pratici ed economici, ma anche dal punto di vista morale. La fame, infatti, coinvolge la sfera più intima dell’individuo, ne scatena le passioni e gli fa compiere azioni prive di umanità: pensate all’assalto ai forni, cui prende parte anche Renzo, o alle scene dei cadaveri che si incontrano per strada con le bocche piene d’erba, l’ultimo pasto prima della morte.
L’accurata ricerca che Manzoni ha compiuto prima di scrivere il suo romanzo più conosciuto viene fuori nei molti episodi in cui l’autore usa il cibo per dare corpo ai suoi personaggi. Questi episodi mettono in luce la sua approfondita conoscenza del mondo rurale e della civiltà contadina lombarda. Il cibo nei Promessi Sposi è inoltre uno degli strumenti con cui l’artista cerca di conferire un realismo micro e macro storico al romanzo.
Prendiamo ad esempio la presentazione del personaggio di Perpetua, che entra in scena “…con un gran cavolo sotto il braccio“: il cavolo-verza era uno degli ingredienti più usati nei piatti della cucina lombarda durante il periodo invernale, come per la classica cassoeula o la gustosa minestra di riso e verza. Del cavolo non si buttava via nulla: le foglie interne venivano consumate crude come insalata, quelle più esterne stufate per contorno; persino il torsolo veniva dato ai bambini da sgranocchiare e gli scarti erano dati in pasto ad i maiali. Le foglie appena appassite venivano usate, infine, per degli involtini ripieni di salsiccia, pane, uovo e formaggio, arrostiti nel burro o nel lardo: un piatto talmente gustoso che veniva chiamato ironicamente capù, ossia capponi, per ricordare la prelibata carne destinata ai ricchi (come dimenticare i tre capponi che Renzo porta all’avvocato Azzeccagarbugli, forse fra gli animali più inutilmente sacrificati nella storia della letteratura?).
Un altro esempio di come lo studio di Manzoni del contesto storico fa attenzione anche al cibo si ha nel capitolo sei, quando Renzo entra in casa di Tonio e lo trova intento a rigirare la polenta bigia, cioè grigiastra: la coltivazione del mais, ossia quello che dà alla polenta il suo colore giallo, fu introdotta nel nord Italia dopo il 1628; prima di quella data la polenta, alimento basilare nella dieta contadina delle valli e della pianura lombarde, veniva fatta con grano saraceno, e dunque si presentava con un colore più scuro.
Anche i piatti che Renzo mangia nelle varie osterie in cui si ferma durante le sue avventure sono ben studiati per rendere il racconto più realistico: lo stufato e le polpette, infatti, sono fatti con carne poco pregiata e si possono cucinare in grandi quantità, per poi riscaldarne all’occorrenza, e conservarne gli avanzi.
Alessandro Manzoni era particolarmente sensibile al tema del cibo, oltre ad essere molto goloso di dolci, ed in particolare andava matto per la cioccolata. Inoltre amava bere vino e si era fatto realizzare un bicchiere più grande, poiché se qualcuno lo avesse accusato di aver alzato il gomito, avrebbe potuto rispondere di aver bevuto solo uno o due bicchieri.