Mabel Bocchi, la divina del basket che si scoprì signora dal multiforme ingegno

Affascinava quell’essere lì quasi oscurata da una selva di mani e con l’agilità di una ballerina riuscire, con un movimento veloce e inaspettato, a vedere la luce per bucare la retina o difendere artigliando il pallone. Per niente facile quell’esercizio risultava addirittura improbo nelle coppe europee quando Mabel Bocchi, alta solo 1,86, doveva soprattutto sfrondare i fitti rami di una solida quercia piantata nei pressi del tabellone a sua volta sempre pronta a imbucare o a proteggere il canestro: quell’interminabile quel centro di gravità permanente che misurava ben 2,13 metri si chiamava Uliana Semionova, la leggendaria lettone pivot dell’imbattibile squadra di basket del Daugawa Riga.

Tale avversaria costituì la cartina tornasole del suo valore sportivo anche perché ricopriva lo stesso ruolo. Troppo superiore nel contesto italiano, con la sua squadra, la Geas di Sesto San Giovanni che vinse otto scudetti in dieci anni, Mabel si esaltava nelle sfide impossibili e quelle con le mastodontiche atlete sovietiche erano al calor bianco: si era a metà degli anni settanta e si giocava una pallacanestro spigolosa, molto fisica, abbastanza schematica e l’estrosa cestista emiliana ebbe il merito d’ imporre una sua personale variazione sul tema. Mai doma, pur da quelle lungagnone sempre battuta nei confronti diretti in campo internazionale, l’italiana riuscì comunque ad artigliare la Coppa Campioni a Nizza nel 1978 dopo aver vinto un bronzo europeo con la nazionale nel 1974 e con la stessa squadra azzurra conquistò il quarto posto assoluto ai mondiali dell’anno dopo in Colombia. In quell’anno di grazia per la pallacanestro femminile italiana venne eletta dalla FIBA miglior giocatrice del mondo. Niente male per quella ragazza bionda di grande personalità che portava il successo dentro di sé anche per un modo tutto suo d’apparire clamorosa e regale tale da meritarsi l’appellativo di Divina.

L’attrazione fatale per il basket scattò per caso un giorno in palestra ad Avellino dove, a causa lavoro del padre la sua famiglia, si era trasferita da Parma la città in cui era nata nel 1953. Favorita da un fisico precocemente sviluppato che qualche imbarazzo le aveva procurato con i coetanei la giovanissima, che si era cimentata anche in altre discipline, appena quindicenne cominciò a giocare per il Partenio Avellino e ben presto imparò da eccellenti maestri quali Giancarlo Primo e Tonino Zorzi, assieme ai fondamentali del gioco, una filosofia sportiva intesa anche come modo d’interpretare la vita:” Fare basket non è solo giocare a basket”.

Da quel momento, la sua carriera diventò un fiume carsico che scorreva sotterraneo per riemergere con forza in superficie: cominciò a sgorgare proprio in quell’anno, nel 1968, con la sorprendente promozione in serie A, sigillata da una sua impeccabile prestazione culminata con il canestro promozione a due mani da metà campo a gonfiare la retina senza neppure che la palla toccasse il ferro. Il trasferimento a Sesto, l’anno dopo fu l’inizio di una serie ininterrotta di successi sportivi durata nove anni vissuti con l’imprimatur della vincente predestinata che nulla deve chiedere agli altri se non prima a se stessa perché è diventata trainante. Nel 1978 lasciò i colori rossoneri per la FIAT Torino e dopo tre anni di alterne vicende, solo a Milano ingaggiata dalla GBC, capì che non poteva più accontentarsi dell’aurea mediocrità. Smise l’attività alla ricerca di altri coup de thèatre anziché vivere coi ricordi: meglio buttarli in fondo al mare. Forse perché ricordare è doloroso, molto di più dei lancinanti infortuni che a soli trent’ anni le recisero la dolce ala della giovinezza sportiva, o forse perché vittima di una crisi di rigetto per un certo periodo ruppe i ponti col basket dopo averlo a lungo anche commentato come opinionista televisiva. Ne ebbe talmente nausea, perfino a parlarne, che spostò decisamente altrove i suoi interessi: pittrice, giornalista, presentatrice, donna di pubbliche relazioni, esperta di fitness e benessere fisico.  Forte anche di una laurea ISEF si proiettò ancor di più nel futuro alla ricerca di sempre nuove occasioni. Celebrando la sua entrata nella Hall of Fame italiana del basket avvenuta nel 2008, unica donna ad aver ottenuto questo riconoscimento, in quel contesto riscoprì intatta la voglia di raccontarsi un poco e fatalmente vennero ripescati attimi di un vissuto che prima o poi per tutti vengono sempre a galla.

In fondo ognuno può scordare il proprio passato, ma egli non si dimentica di nessuno.

Tanto vale allora in certi frangenti rivalutarlo senza rimpianti e con l’entusiasmante freschezza della semplicità, ora che giunta al traguardo dei 65 anni, tra l’atro splendidamente ben portati, l’indimenticabile cestista si limita a un emblematico flash:” Un sacco di ricordi e di emozioni splendide, vittorie impagabili e sensazioni che non rivivi più. Facevo ciò che amavo e in più mi pagavano, ero autonoma e a 17 anni giravo il mondo”. Delle ben 121 presenze in nazionale, tante hanno anche significato viaggi, avventure ed esperienze varie, di cui l’eclettica Mabel, ha tratto e trae ancora giovamento per la sua crescita umana.

“Sii forte nel corpo, limpido nei pensieri, maestoso negli ideali” quando James Niansmith inventò la pallacanestro aveva nel cuore questo pensiero e nella mente scenari di uno sport che è letteratura e matematica allo stesso tempo. È molto difficile rispettare alla lettera questi dettami, comunque Mabel Liliana Bocchi c’è andata molto vicina e sicuramente anche nelle piccole diversità è stata quantomeno molto originale.

Vincenzo Filippo Bumbica