Il teatro di Valeria Moriconi: incerto confine tra finzione e realtà

Nel 2000, in un’intervista rilasciata ad Avvenire per ricordare i vent’anni dalla morte di Diego Fabbri, il grande uomo di spettacolo forlivese, racconta la sua idea di teatro:” Credo che il teatro, rispecchi sempre l’epoca nella quale è inserito. Ormai i grandi temi sembrano far paura, non essere più di moda, non interessare più. Oggi si fa il remake di tutto, si preferisce dire cose già sentite piuttosto di scriverne delle nuove. Forse c’è anche la disperazione, la convinzione che non si è più all’altezza di affrontare tali argomenti”.

Un anno dopo, com’è strano il caso quando non è un caso, nella commedia “Un equilibrio delicato” del sofisticato autore Edward Albee, nei panni di Claire, la scandalosa e alcolizzata cognata di una coppia che conduce un ménage decadente, Valeria Moriconi esprime alla perfezione questo senso della deriva e il disincanto del nostro tempo che il drammaturgo statunitense aveva già messo in risalto nel suo capolavoro più famoso: “Chi ha paura di Virginia Woolf”. L’attrice, ormai alla soglia dei settanta anni, dopo una vita piena di vibranti entusiasmi si ritrova sempre meno in un mondo che si è parecchio abbassato nella qualità di pensiero, di giudizio e di comportamento. Però sente di dover dire e fare ancora qualcosa e il teatro, che ne rappresenta l’anima, è dunque il suo modo più congeniale di comunicare. Da quell’interpretazione capolavoro Valeria ancora continua indefessa il suo viaggio verso l’immortalità artistica fino a che ha in corpo l’energia necessaria per alimentare quello che la mente le suggerisce e il cuore le comanda. Alterna ai copioni classici quali Shakespeare e Pirandello, quelli moderni: “L’eredità di Fisher” di Sandor Marai; “La nemica” di Dario Niccodemi e “Gin game”, di Donald L. Coburn. Ma gli sforzi sono troppi e il fisico segna il conto, tanto che nel 2004, dopo aver già programmato le recite de “Gli spettri” di Ibsen, deve arrendersi all’implacabile malattia che da tempo ormai la possiede: da quel momento scompare dai palcoscenici per ritirarsi nel suo eremo preferito. L’anno appresso, il giorno 14 di giugno, la cronaca riporta il suo necrologio. Si chiude per sempre un sipario di velluto nero sull’ultima fantomatica scena della sua vita, quella che racconta la teatrale storia di ordinaria follia di una donna prima che un’attrice, intelligente, coraggiosa e libera quanto basta per affermare la sua prorompente presenza nell’affollato e variopinto contesto del mondo dello spettacolo italiano. Un’ impareggiabile artista della recitazione che ha saputo ben interpretare sé stessa e la sua professione con la leggera naturalezza di un film, con il sofisticato impegno di una commedia e con la tragica postura di un dramma a tinte fosche.

Paradossalmente la sfolgorante carriera della signorina Valeria Abruzzetti, nata a Jesi nel 1931, comincia proprio dall’anticamera del teatro: il cinema. Siamo nel 1954 e la sua bellezza di prorompente mediterraneità: formosa, bruna e vivace, viene scoperta da Alberto Lattuada che le affida una parte nel film “Gli italiani” (episodio Amore in città), appare in piccole particine di film come: “La spiaggia” e “Miseria e nobiltà”, e poi  anche Mauro Bolognini, in seguito diventato suo regista preferito, la vuole nel set di” Innamorati”, accanto ad Antonella Lualdi, Franco Interleghi e Nino Manfredi. Il tempo di entrare nell’ambiente dello spettacolo e un cupido di nome teatro scocca la sua freccia artistica per colpirla al cuore: senza aver frequentato nessuna scuola di avviamento alla professione, Valeria ora diventata signora Moriconi, entra a far parte del mondo teatrale con la benedizione del grande Eduardo De Filippo che dopo un provino esclama: “A piccirilla va’bbuono”. Da allora, fu lui il suo mentore e tutore, il genio che la lanciò alla ribalta della scena teatrale in quella sera del 26 aprile 1957 con un ruolo da prima attrice nella commedia “De Pretore Vincenzo” e, più tardi, la scelse come co-protagonista per la produzione televisiva “Chi è cchiù felice ‘e me”.

Eduardo non è tuttavia l’unico uomo importante nella vita di una donna dalle intense passioni vissute con slancio e altrettanto trasporto: oltre il marito di cui le rimase ahimè solo il cognome, nel 1960 corrisponde gli infuocati sensi del regista fiorentino Franco Enriquez,  affascinante e colto sognatore, appassionato di teatro sin dai tempi dell’adolescenza e aiuto regista di figure colossali come Luchino Visconti e Giorgio Strehler, che aveva visto il suo esordio nella televisione italiana soltanto sei anni prima con un’opera di Carlo Goldoni. E’ con lui che la Moriconi condivide gran parte della sua imponente attività teatrale e della sua vita privata e professionale, a cominciare dalla fondazione della Compagnia dei Quattro. Furono quelli gli anni più felici e floridi, specie quando interpreta “La Locandiera” di Goldoni, finendo per innamorarsi del teatro ben più di qualunque altro mezzo di espressione artistica. Alla sua scomparsa nel 1980, nella quiete di Sirolo accanto al giornalista bolognese Vittorio Spiga si concederà sprazzi di serenità tra spruzzi di mare.

In quegli anni ruggenti il contagioso entusiasmo di una donna tanto seducente, quanto dolce ed emotiva conduce Valeria Moriconi a incrociare alternativamente le strade delle sue attività principali nel mondo dello spettacolo: teatro e cinema. Eccola infilare uno dopo l’altro ruoli che più diversi non si può mantenendo sempre lo stesso effetto scenico: “Un giorno da leoni”; di Nanni Loy del 1961 e, nello stesso anno, “A cavallo della tigre” di Luigi Comencini; poi “Le soldatesse” di Valerio Zurlini del 1965.

In teatro nel 1972 risplende come una stella applaudita da settemila spettatori al Teatro greco di Siracusa, in Medea di Euripide. In fondo non era altro che umana come lo era “Filumena Marturano” che lei stessa definì “anzitutto visceralità e sentimento”. Dopo che era stata Caterina ne “La bisbetica domata”, Serafina Delle Rose ne “La rosa tatuata “di Tennessee Williams, sconvolge i benpensanti nei panni di Mina ne “L’Arialda” di Testoni diretta dall’esigentissimo Luchino Visconti. Agli inizi degli anni ottanta, disegna altri personaggi di elevato spessore artistico: è sublime in “Turandot” di Carlo Gozzi con la regia di Giancarlo Cobelli; diventa la provocante regina egizia in “Antonio e Cleopatra” di Shakespeare; recita con Lidya Alfonsi e viene diretta da Luca Ronconi e Maurizio Scaparro, prima di imbattersi nel 1994 nel Pirandello di “Trovarsi” regia di Giuseppe Patroni Griffi e subito dopo affrontare le crude tematiche esistenziali di Arthur Miller in “Vetri rotti”.

Tutto questo dura finché la salute assiste l’inesausta attività della Jesina che sfoggia una vera e propria girandola di personaggi con l’inusitata duttilità di attrice dal nobile rango nel teatro italiano. Impegno che a fine carriera porta Valeria a essere certa che il suo nome sarebbe rimasto nei secoli, indelebile nelle pagine del miglior teatro; infatti, oggi ne custodiscono la memoria il Teatro Studio ex san Floriano – dal 2005 a lei intitolato – e l’annesso Centro Studi e Attività Teatrali Valeria Moriconi istituito per volere delle eredi Adriana e Luciana Olivieri in accordo con il Comune di Jesi e affidato in gestione alla Fondazione Pergolesi Spontini.

Il teatro è quello: la possibilità, con una canna di bambù, di raccontare lo spazio, di raccontare il mare, con una foglia di raccontare un bosco, con una tela bianca di raccontare un matrimonio, la storia attraverso i movimenti del corpo, piccoli oggetti. L’essenzialità ad un punto tale… alla semplicità più semplice… un mondo di immagini che diventa più forte della parola.

Firmato Valeria Moriconi

 

Vincenzo Filippo Bumbica