Steve Mc Queen, l’ultimo buscadero di Hollywood

Fu quando ordinò per la prima volta una decina di rasoi elettrici e svariate dozzine di blue jeans che spedì al riformatorio di Chino, dove aveva trascorso un piccolissimo spicchio della sua vita, che si rese conto di avercela fatta. Quel ragazzo dichiarato irrecuperabile, che da bambino troppo trascurato viveva nell’ostilità e aveva imparato ad aggredire, era uno di quelli che si era iscritto a scuola di recitazione dopo aver frequentato quella della strada. Solo così diede sbocco al suo talento.

Da quel momento il risoluto biondino dallo sguardo azzurro, freddo come una lama d’acciaio, costringe il destino a tirare in sua vece la moneta in aria. Testa o croce non fa differenza: è sempre pronto a qualunque sfida e vince in eccessi e successi, fino a quando all’improvviso perde quella decisiva con l’inquilino nero che abita la nostra esistenza.
Sul letto di morte le ombre del suo passato si allungano a dismisura: i ricordi sono nani che diventano giganti e non riesce a toglierseli dalla mente continuando ossessivamente a mormorare il numero di matricola 3188, quello che lo aveva marchiato in quegli anni difficili.


Steve McQueen, a quel punto attore ormai ricco, famoso e capriccioso, abile pilota di auto e moto, rimane senza benzina nella corsa della vita, colpito da un male incurabile che nel 1980 gli ruba un futuro rombante costruito sui pezzi di un’infanzia assemblata. Questa morte inaspettata per la sua decisione di nascondere fino all’ultimo la malattia e prematura, perché aveva solo cinquanta anni, consegna la sua immagine alla memoria collettiva attraverso i personaggi cinematografici da lui interpretati. Essi vivono in simbiosi con quel tipo strano, molto sensibile, silenzioso, timidissimo e a volte inaccessibile, ma anche impetuoso e spavaldo che condusse la sua avventura umana a ritmi vertiginosi, come a inseguire il tempo perduto.

Che fosse un predestinato a bruciare il tempo era scritto nelle stelle. Nasce, infatti, nel 1930 a Beech Grove a due passi dalla famosa pista automobilistica di Indianapolis, paradiso terrestre americano dell’alta velocità: qui il piccolo Steve cresce sviluppando la sua inestinguibile passione per i motori che data la sua indole di giovane arrabbiato, aumenta la sua propensione a uno stile di vita ”on the road”.
E così velocemente passa da un mestiere all’altro finché nel 1951 si convince a tentare la carriera artistica. Sin dagli inizi però, il suo carattere particolare, la sua natura solitaria e la sua istintiva diffidenza ne fanno un attore difficile da gestire, benché abbia un suo stile originale, brillante e coinvolgente. Grazie però al suo bel fisico, a un volto luminoso nella sua ombrosità e a un notevole carisma, alla fine riesce a imporsi in tv con la serie”Wanted: Dead or Alive”. Diviene un personaggio di successo: un vero e proprio idolo per il suo modo d’essere trasgressivo e anticonformista.

Nel frattempo, si sposa con Neile Adams anch’essa attrice e proprio in quell’anno 1956, finalmente ottiene una particina nel film “Lassù qualcuno mi ama”, protagonista quel Paul Newman da cui fu diviso da fiera rivalità, non solo professionale. Entrato in pista, il baldo Steve aspetta di partire continuando a lavorare per il piccolo schermo, così quando Frank Sinatra litiga con Sammy Davis junior e lo licenzia egli occupa il posto di quest’ultimo per un ruolo nel film di John Sturgess, “Sacro e Profano” del 1959. Un anno dopo, lo stesso regista, memore della sua grintosa perfomance, lo richiama per affidargli la parte di Vin, uno svelto e all’apparenza cinico pistolero nell’indimenticabile western”I magnifici sette”. Il film consegue un enorme successo internazionale e sfruttando appieno questa magnifica occasione, l’atletico trentenne benché ancora un poco acerbo, da questo trampolino di lancio prende la definitiva rincorsa alla pole position cinematografica.

Si cimenta dunque in altri ruoli e appare come protagonista assoluto nel film: ”Per favore non toccate le palline”, del 1961, dove appare spigliato, leggero e divertente. Dopo l’ intermezzo di due pellicole a sfondo bellico: ”Amante di guerra “e“L’inferno è per gli eroi” in cui conferma l’aureola di antieroe però generoso e patriota, nel 1963 ancora Sturgess, gli offre l’occasione della consacrazione definitiva inserendolo nel sontuoso cast de ”La grande fuga”. La quintessenza del film d’azione dove impersona  Virgil Hitts: un ruolo che gli calza a pennello quello del prigioniero americano sprezzante delle regole e della disciplina che in un campo di prigionia evade scorrazzando con rocambolesche piroette motociclistiche per sfuggire ai carcerieri nazisti. In quell’anno mostra anche una notevole disinvoltura recitativa impersonando Rocky Papasano, il trombettista dell’Est Side italiano nei guai per aver messo incinta la sua ragazza in ”Strano incontro”, accanto a Natalie Wood della cui risplendente bellezza l’impenitente Steve, donnaiolo consumato, risulta abbia goduto oltre le luci del set.

Lui che per sbarcare il lunario aveva fatto anche il giocatore di carte professionista, non può non essere l’interprete ideale di” Cincinnati Kid”, anche perché dal mazzo delle sue qualità estrae il jolly di una perfetta contrapposizione al mostro sacro Edward G. Robinson. Così come si rende perfettamente aderente al ruolo del giovane meticcio cui hanno trucidato la famiglia che, freddo e implacabile, vive per la vendetta in”Nevada Smith”. Per non parlare dei suoi eroici trascorsi da marine che riemergono riveduti e corretti in quelli cinematografici de: ”Quelli della San Pablo” del 1966. Prima nomination Oscar da attore protagonista. Ormai simbolo d’un certo antidivismo hollywoodiano, rafforza la singolarità del suo personaggio con due film del 1968, entrati di diritto nella storia del cinema. Comincia sfoderando una classe cristallina nei panni del ladro gentiluomo de”Il caso Thomas Crown”, ben coadiuvato dalla raffinata personalità di Faye Dunway e continua col thriller ”Bullitt”, dove tra i tormenti e insuccessi di un tenebroso tenente di polizia, trova anche l’occasione per esibirsi in una spettacolare kermesse automobilistica. Quello susseguente è un anno in chiaroscuro: vince un Golden Globe e ottiene un’altra nomination all’Oscar per come disegna da par suo la figura di ”Boon il saccheggiatore”, un tizio che si porta appresso la sua scanzonata esuberanza a bordo di un’auto in giro per l’America; e dove però scampa per caso al massacro perpetrato dalla setta di Charles Manson nella villa dove muore Sharon Tate. Segnato da questo episodio, ormai quasi quarantenne, alle prese con infiniti litigi matrimoniali, conduce una vita dissipata che tenta di surrogare sfogando la sua passione sportiva per le corse e così gira il mediocre “Le ventiquattro ore di Le Mans”. Sembra finito, quand’ecco la svolta: all’inizio degli anni settanta, l’incontro col grande regista Sam Peckinpah. Da questo pregevole binomio nascono due capolavori assoluti: ”L’ultimo Buscadero” e “Getaway”. Nel primo Mc Queen entra perfettamente nella parte del disincantato cow boy da rodeo; mentre nell’altro indossa magnificamente i panni di un esperto rapinatore in fuga per la libertà, che uccide i cattivi di turno portandosi dietro donna e malloppo. Successo clamoroso, quest’ultimo, con la ciliegina di un fulminante amore per la coprotagonista Alì Mac Graw che di lì a poco diventa sua moglie.

Ormai di nuovo sulla cresta dell’onda, gira”Papillon”, terza nomination Oscar, e di seguito “L’inferno di cristallo”: un incallito falsario ergastolano e un coraggioso e sagace capo dei pompieri, sono i suoi ultimi ruoli scintillanti. L’amareggiato “Tom Horn” e subito dopo il crepuscolare Ralph Thorson de”Il cacciatore di Taglie”, entrambi del 1980, appartengono al suo ultimo periodo: quello dell’inesorabile declino data la sua già cagionevole salute.
Attore inimitabile nella sua diversità, talentuoso sportivo dai notevoli risultati, uomo sfuggente, marito e amante inaffidabile poiché aveva una tendenza malandrina all’adulterio, Steve Mc Queen non smentì mai se stesso, così era fatto, così visse riuscendo perfino a nascondere, sotto la scorza da duro, una sottile vena di tenerezza: evanescente linea di confine tra un cuore d’oro e una carogna predestinata.

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Vincenzo Filippo Bumbica