Nicola Pietrangeli, il tennista della dolce vita

«Quante volte mi sono sentito dire: “Certo, se ti fossi allenato seriamente avresti vinto di più!”. E io freddamente rispondevo: “Sì! Ma sapeste quanto mi sarei divertito di meno…”.

Da uno così, la cui classe innata e infinita si specchiava nell’indolenza sorniona tipica della romanità, non ci si aspetta certo il racconto di trascorsi tennistici intrisi di sacrificio: sudore, lacrime e sangue, aspetti primari del rutilante tennis odierno, non gli appartenevano e tantomeno erano decisivi per le ardite risalite e i faticosi consolidamenti nelle posizioni d’élite delle primitive classifiche mondiali di allora. Dettava legge solo la netta dicotomia di uno status sportivo: professionisti o dilettanti.

E Nicola Pietrangeli che solo una volta tentò di oltrepassare quel confine, rimase per sempre, soprattutto nello spirito, un dilettante anche quando nel 1968 il tennis divenne Open.

Si divertiva a giocare perché esprimeva un tennis creativo fatto di colpi a effetto ma senza troppo effetto; di palle corte che morivano al di là della rete; di pallonetti che parevano disegnati col compasso; di colpi d’incontro spontanei, specie il rovescio, beffardi e a volte irridenti. Era una specie di rappresentate tennistico che ogni volta apriva la sua valigia come fosse quella dei sogni realizzati per sciorinare sul tappeto(quasi sempre rosso) tutta la sua sfolgorante mercanzia. E di conseguenza lui brillava di luce propria come figura di spicco nel tennis narcisistico del tempo: quello esclusivo del bel mondo, quasi di casta, quello dei gesti bianchi, quasi al rallentatore; quello dei tocchi felpati e raffinati, quasi difficile per tanti e facile per quelli come lui che maneggiava da par suo la racchetta di legno domandone l’assoluta rigidità.

Siamo a metà degli anni cinquanta e nel pieno possesso di quelle eccellenti qualità, quel risoluto giovanotto nato a Tunisi nel 1933 (allora colonia francese), si affacciò sulla ribalta tennistica col piglio particolare di chi sa quel che vuole. Cominciò dunque a scegliere la cittadinanza italiana e non quella dei cugini d’oltralpe e il motivo seppur nascosto all’apparenza si rivelò poi in tutta la sua evidenza: si stabili a Roma perché inconsciamente era romano nel cuore e nell’anima e questa peculiarità lievitava man mano che si affermava nello sport e dunque anche nella vita. Amava il calcio (giocava nelle giovanili della Lazio) e alla fine dovette fare la sua scelta.

A cavallo di quegli anni, i cosiddetti anni della dolce vita, Nick ispirato da quella magica atmosfera e a suo agio nei panni di viveur internazionale, intraprendente e impenitente, assiduo frequentatore del bel mondo dorato e uomo di successo, colse i suoi migliori risultati sportivi interpretando benissimo così a tutto tondo la sua parte in quel contesto sociale tanto da risultare gradito dalle donne e invidiato dagli uomini nel colorato e vivace immaginario popolare collettivo di un periodo d’oro della storia italiana.

Con uno stile tutto proprio, un garbo inusitato e una personalità traboccante, Pietrangeli ha rappresentato un’epoca nella quale ha scritto pagine sportive a caratteri indelebili per la nobiltà dei risultati che solo Adriano Panatta è stato in qualche modo capace di avvicinare.

Oltre al record di presenze totali in coppa Davis, ben 164, Nicola annovera due successi (1959 e 1960) al Roland Garros e altrettante semifinali (1961-1964), così pure due vittorie agli internazionali d’Italia (1957 e 1961) condita da altre due semifinali (1958 -1966). Poi la prestigiosa semifinale di Wimbledon 1960 persa al quinto set per mano di quell’implacabile fuoriclasse di nome Rod Laver; i quarti di finale in Australia nel 1957 e due anni il raggiungimento della terza posizione nelle ufficiose classifiche mondiali del periodo.


Come doppista insieme al leggendario Orlando Sirola, anch’esso uomo gaudente che alternava benissimo la sua professione al whisky e al poker, una vittoria a Parigi, una finale a Londra battuti dai satanassi australiani Hoad e Rosewall e il successo capolavoro a iniziare l’incredibile rimonta della finale interzone contro gli Stati Uniti a Perth nel 1960. 

Oltre a essere protagonista indiscusso di queste avventure, una volta appesa la racchetta al chiodo come capitano non giocatore di Coppa Davis, a Pietrangeli va riconosciuto l’indiscutibile merito di essersi opposto con tutte le sue forze alla maggior parte della opinione pubblica che nel 1976, reclamava a gran voce di disertare in segno di dissenso la trasferta in Cile per disputarsi la mitica insalatiera d’argento contro un paese insanguinato dalla dittatura di Pinochet. Pragmatico e carismatico, deciso e dotato di buon senso il buon Nicola la ebbe finalmente vinta e oggi il nome dell’Italia tennistica fa bella mostra di sé nell’albo d’oro della piu prestigiosa competizione a squadre del tennis.

Poteva un uomo di così grande cuore e di altrettanto robusti sentimenti e dunque indissolubilmente legato al passato dimenticare i tanti amici e colleghi che hanno popolato la sua vita? Certamente no! Infatti ancor oggi si intrattiene amabilmente durante i vari tornei con alcuni di loro, Lea Pericoli in primis, sempre più preziosa amica e deliziosa collega del tempo che fu, ma in specie con colui che per certi versi è stata la sua nemesi sportiva e paradossalmente il rivale più scomodo, al contempo l’avversario più gradito e in definitiva l’amico più caro nella spontanea lealtà di tante sfide tennistiche con una grossa posta in palio: lo spagnolo Manolo Santana.


E dunque non è solo una questione di feeling con l’entourage del prode presidente del CONI Giovanni Malagò, ma una ragione di più che nel 2006, a un campione ancora contemporaneo sia stato intitolato un campo da tennis nel Foro italico: il vecchio e storico Pallacorda da quella data è diventato il campo Nicola Pietrangeli.

Quel piccolo anfiteatro, costituito da splendenti marmi bianchi che amplificano i raggi solari, che raccoglie anche il più piccolo alito di un qualsiasi spettatore, attorniato da bellissime statue rappresentati le varie discipline sportive è senza alcuna ombra di dubbio lo scenario ideale per celebrare un grande campione e ricordare il suo tempo.

Un campo che ha la sua storia, ideato nel 1932 fu completato definitivamente nel 1968, che ha raccontato tante storie interpretate da grandi tennisti, oggi con l’ampliamento del Centrale e la nascita del nuovo Next Generation, racconta altre storie: quelle dei giovani emergenti che vogliono arrivare a tutti i costi, costi quel che costi.

E se il fine giustifica i mezzi però non sbiadisce più di tanto il ricordo di un altro tennis: nel suo complicato meccanismo e nella più assoluta esasperazione questo sport contiene sempre gli anticorpi pronti sempre, come l’araba fenice, a rigenerarlo nella sua sublime e perversa ripetizione: i punti non saranno mai tutti eguali.

Vincenzo Filippo Bumbica