“Nel guscio”: un non bebè che assiste all’omicidio del padre

L’ultima fatica letteraria di Ian McEwan si intitola “Nel guscio” ed è decisamente un romanzo diverso da quelli scritti finora.

Nel panorama letterario contemporaneo, infatti, McEwan è conosciuto per essere stato agli esordi uno scrittore da libri meravigliosamente cupi e strani e per aver adottato, successivamente, un realismo preceduto da estenuanti e dettagliate ricerche.

Tra le sue opere più celebri si rammentano: “Il giardino di cemento”, “Cortesie per gli ospiti”, “Bambini nel tempo”, “Espiazione” e “La ballata di Adam Henry”. Quest’ultimo libro è stato per Ian McEwan motivo di stanchezza in quanto corroborato da un approfondito lavoro di documentazione e di ore passate in Tribunale a parlare con magistrati ed avvocati.

Come egli stesso ha dichiarato, la necessità di libertà lo ha condotto a scrivere “Nel guscio”. Seppur alla soglia dei 70 anni, Ian McEwan ha stupito la critica letteraria e si è reinventato scrittore confermando genio, bellezza stilistica e introspezione.

Il libro è scritto in prima persona singolare. Chi racconta è un feto al quale manca poco per venire alla luce. Lui c’è perché è presenza in un altro corpo, ma allo stesso tempo è assente perché non ancora nato. Di sé dice: «È in me e in me soltanto che i miei genitori mescolano una volta per tutte, dolcemente, acidamente, a partire da zuccheri e fosfati di colonne vertebrali separate, secondo la ricetta base che fa di me, me stesso». Dalla sua posizione privilegiata, il piccolo percepisce il mondo esterno, analizzandolo e provando a renderlo proprio.

Dai mille cambiamenti dello stato d’animo della madre Trudy, dai programmi radiofonici di approfondimento culturale che lo informano sulla crisi economico-finanziaria della società moderna, sull’involuzione umana e sulle meraviglie per cui vale la pena nascere e vivere, dai bicchieri di vino quotidiani bevuti tramite la madre e dallo zio Claude che detesta per essere un uomo orribile e l’amante della madre, il nascituro scopre ciò che esiste mentre lui ancora non è.

Sue sono riflessioni come “Saremo sempre angosciati dalla realtà circostante: è il prezzo da pagare per il complicato dono della coscienza” oppure “Lo stato generale delle cose mi è più chiaro e rende, dovrebbe rendere, trascurabili i miei problemi privati. C’è non poco di cui essere lieti. Sto per ereditare una condizione di modernità e per abitare un angolo privilegiato del pianeta: la ben nutrita, bonificata, occidentale Europa” e ancora “Io non ci credo ai sapienti di scienza della vita”.

Seguendo ininterrottamente la vita di Trudy e dello zio Claude, il feto deve sopportarsi tutti i discorsi astrusi di Claude e il sesso sfiancante e disgustoso tra i due e, soprattutto, diviene spettatore non solo della nascita di un intento comune, ma anche della realizzazione di un progetto sconcertante.

Trudy e Claude, infatti, hanno deciso di uccidere suo padre, John Cairncross, poeta povero e sconosciuto, per accaparrarsi l’edificio georgiano su Hamilton Terrace di inestimabile valore ereditato da John.

Quando il nascituro apprende questa crudele verità dice: “Mi reputo innocente, dispensato da obblighi di lealtà e doveri, uno spirito libero, a dispetto dell’esiguità del mio spazio vitale. Nessuno che mi contraddica o rimproveri, nessun nome, nessun precedente indirizzo, niente fede religiosa, niente debiti, nessun nemico. [..] Sono, o ero, checchè ne dica la genetica contemporanea, una tabula rasa una lavagna intatta. Mi reputo un innocente ma a quanto pare sono parte di un complotto. Mia madre, che il cielo benedica il suo rumoroso cuore instancabile e pompante, sembra sia coinvolta”.

Il nascituro, così, comprende che semmai dovesse esistere nascerà orfano per colpa della madre e dello zio e inizia a vivere le ultime settimane prima della nascita carpendo ogni dettaglio del piano dei due amanti, facendosi un’idea sull’Amore e sul rapporto dei suoi genitori e snocciolando riflessioni sull’esistenza, sulla coscienza e sulla vita, pianificando nel frattempo un modo per farli desistere a costo della sua stessa vita.

McEwan riesce a coinvolgere a tal punto che il lettore non terrà più conto di quante pagine manchino alla fine, ma semmai seguirà il flusso della storia narrata da questo “piccolo essere che non è” e come un mantra si chiederà: si salverà il nascituro? Riusciranno Trudy e Claude ad uccidere John? La faranno franca? E una volta nato, il narratore potrà avere la stessa libertà alla vita ardentemente invocata mentre non era ancora?

A noi non spetta darvi risposte, cari lettori, ma solo dirvi che ancora una volta McEwan ha scritto un romanzo capolavoro. È apprezzabile lo stile adoperato, la scorrevolezza della storia, la sorprendente idea di far parlare un nascituro e il continuo enigma amletico tra ciò che è e ciò che non è con la scoperta di quanto sia fondamentale l’esitazione. McEwan riesce a far dire al nascituro pensieri condivisibili ed immortali, di quelle frasi da sottolineare e ricordare per gli anni a venire.

Prima di provare a rovinare quanto ideato da Trudy e Claude a costo della sua vita, McEwan mette in bocca al nascituro queste parole: “Quello che mi spaventa è perdermi qualcosa. Che si tratti di un sano desiderio o di mera ingordigia, prima voglio la mia vita, quanto mi è dovuto, la mia infinitesimale fettina di eternità e una discreta opportunità di coscienza. Mi spetta qualche decennio per sfidare la sorte su un pianeta mulinante a ruota libera. È questo il mio giro in giostra – il Muro della Vita. Voglio la mia corsa. Voglio diventare. In altre parole, c’è un libro che mi preme leggere: non ancora pubblicato, e non ancora nemmeno scritto, anche se un inizio c’è già. Voglio leggere fino alla fine la mia Storia del ventunesimo secolo”.

“Nel guscio”, Ian McEwan, Traduzione: S. Basso, Einaudi Editore, Collana Supercoralli, pag. 173, € 18,00

Non ci resta che augurarvi… Buona lettura!

Sandy Sciuto