E’ un periodo storico in cui, sul web, ci si batte a suon di hashtag un po’ per tutto: dalla guerra aperta a Tarte (nota marca di cosmetici colpevole di non aver prodotto un congruo numero di colori di fondotinta che si adattino a tutte le 50 sfumature di melanina), all’annosa lotta femminista per il diritto insindacabile e fondamentale a lasciarsi crescere peli su gambe e ascelle; fino alla mia personalissima battaglia per il riconoscimento dei diritti di noi gingerheads, ancora privi di apposita emoji rappresentativa su whatsapp.
In mezzo a tutte queste dignitosissime lotte, ci siamo però dimenticati di alcune persone – i disabili – che pur avendo l’emoji a loro dedicata, vengono spesso esclusi da una serie di esperienze e privati di una serie di diritti che a noi sembrano scontati.
E no, non sto parlando di infrastrutture, posti al cinema o sui mezzi pubblici (e, in ogni caso, se siete interessati all’argomento potete fare un salto qui o farvi un giro della città portandovi appresso un trolley molto pesante, giusto per fare la full experience di trovare ogni santo scivolo occupato da macchine/moto/furgoncini etc). Sto parlando di sesso.
Chiunque viva con una persona disabile, sa perfettamente quanto occuparsi dei bisogni di un altro essere umano sia un lavoro a tempo pieno, fatto di responsabilità e rischi. Escludendo errori umani e incidenti, uno dei rischi più frequenti è quello di finire col considerare il disabile alla stregua di un “eterno bambino” (per citare Ileana Argentin, deputata PD affetta da amiotrofia spinale e impegnata su temi etici e disabilità), ignorandone bisogni fondamentali come quelli racchiusi nella sfera sessuale e affettiva.
Esistono corsi dedicati a disabili e accompagnatori/tutori per “conquistare l’autonomia” più o meno in ogni campo: mangiare, lavarsi, vestirsi, lavorare. Eppure, davanti a un bisogno fisico assolutamente naturale come la sessualità, siamo indietro anni luce. Preferiamo chiudere gli occhi, tapparci le orecchie e fare BLABLABLA. Perché è scomodo, sconveniente e grottesco pensare a uomini e donne adulti che vengono “manipolati” dalle proprie madri e portati “a donne” dai propri padri. Sì, è proprio questa la situazione attuale: per quanto assurdo possa sembrare, questa è una realtà quotidiana per migliaia di persone affette da disabilità. Ed è in questo contesto, per rispondere a questo bisogno, che nasce LoveGiver: fondata nel 2013 dall’attivista per i diritti dei disabili Maximiliano Uliveri, l’associazione si propone di introdurre la figura dell’assistente sessuale per persone disabili in Italia.
Ma, materialmente, cosa fa un assistente sessuale? E’ una specie di prostituto/a legalizzato/a? Un infermiere con mansioni “particolari”?
Nulla di tutto ciò.
Chi pensa che l’assistente sessuale sia una figura immorale e “sporca”, lo fa sulla base di un retaggio intriso di bigottismo e banalizzazione di tutto ciò che ruota attorno al mondo della sessualità. Perché, diciamocelo, se per te il sesso si riduce a un’azione meccanica che porti all’orgasmo e alla sigaretta post-coito, non sai che ti perdi.
Il sesso è contatto, è piacere, è coinvolgimento dei sensi, scoperta del proprio corpo. È proprio questo il lavoro dell’assistente sessuale: offrire ai propri “pazienti” l’educazione alla corporeità (la propria, in primis) che la masturbazione o il rapporto a pagamento non possono – per ovvie ragioni – offrire.
Essere disabili, spesso, significa essere costretti a “subire” una serie di contatti fisici necessari (essere lavati, vestiti, nutriti ecc) che diventano azioni automatiche da parte dell’assistente personale (o del genitore). Il rischio è quello di sentirsi “oggetti” più che persone.
Il contatto fisico, che per una persona non affetta da disabilità assume una serie di significati emotivi e gioca un ruolo fondamentale nel campo dell’affettività, diventa per un disabile un gesto di routine al quale ci si abitua, un tocco privo di spontaneità e piacere. Si viene toccati più per necessità, che per “voglia”.
Naturalmente, c’è da precisare che migliaia di persone disabili hanno relazioni romantiche e un buon rapporto con la sessualità ,propria e altrui. Ma non è di questo che ci occuperemo, oggi.
Tra le personalità che si sono occupate di questo tema, spicca senz’altro Francesco Cannavà, giovane regista Siciliano alle prese con la realizzazione di Because of My Body, docufilm incentrato proprio sulla questione del complesso rapporto tra sessualità e disabilità. L’obiettivo di Francesco, è quello di raccontare – senza filtri zuccherosi né troppi giri di parole – quello che avviene tra le mura delle case dei disabili di tutta Italia: ogni persona con la sua storia, con la sua routine, con la sua voglia di accettare e sentire accettato il proprio corpo e la propria fisicità, con tutte le difficoltà che questo comporta.
E voi, cosa pensate dell’argomento? Trovate giusta l’introduzione della figura dell’assistente sessuale? Fatecelo sapere con un commento!