La comunicazione del terrorismo

Nel 2016 la comunicazione è importante, le distanze si sono ridotte anche grazie alla capacità che abbiamo di poterci interfacciare istantaneamente con l’altra parte del mondo. Basti pensare che nel primo decennio del 1500, non tutti in Europa sapevano della scoperta dell’America, invece oggi, se apre un sushi bar a Piccadilly Circus, possiamo ritrovarci il suo post sponsorizzato sulla nostra bacheca Facebook.

Dalla notte dei tempi, nessuno stimolo è più potente e difficilmente ignorabile come quello della paura. La paura ci mantiene in vita, ci scoraggia dal commettere errori, la paura è strettamente legata all’istinto di auto-conservazione, il vero ed unico motore nell’esistenza di tutti gli esseri viventi, per farla breve, ad un cavernicolo conveniva scambiare una roccia per un orso invece che un orso per una roccia.

La radice della parola “terrore” nella parola “terrorismo” è anche fin troppo ovvia, ma pensate si siano fermati solo a questo? In realtà dietro ad ogni video di minacce, dietro ogni filmato di decapitazione, c’è un’attenta e costruita regia, condita con una studiata scenografia e perfino una pensata scala di distribuzione!

Si possono addirittura rintracciare diversi stili a seconda del regista che si trova a dirigere l’eventuale opera, come nel caso di due personaggi che hanno per diverso tempo segnato uno dei periodi più tristi e cupi della nostra storia contemporanea, Bin Laden e Al Zarqawi. Mentre per il primo segue una linea più “autoriale”, dove pone tra i suoi obiettivi l’effetto testimonianza, il secondo è più concentrato sulla “documentalità”, ossia un’esposizione chiara e diretta dei fatti, senza trucchi di post-produzione o o significati simbolici particolarmente reconditi. Laddove il primo caso cerca di accomunare in sé tutte le componenti del mito, andandosi a costruire un’immagine di profeta e nemico pubblico numero 1, il secondo è alla ricerca delle componenti del rito, nella sua variante più estrema di vittima sacrificale, fondando la propria la drammaticità sulla sua stessa monotematicità, la nostra mente sa dove andremo a parare, ma rifiuta di arrendersi, sperando in un più felice epilogo, rimanendo incollata fino alla fine allo schermo, per assolvere a testimone delle sue sensazioni.

Osama è stato più volte additato sia da esperti della comunicazione, che dall’opinione pubblica, come “l’uomo da palcoscenico” la marionetta che dava il volto ad una serie di loschi intrecci di un’organizzazione che ordiva a tavolino quelle che sarebbero dovute essere le prossime mosse del profeta (non casuale il riferimento in “Iron Man 3” con la figura del “Mandarino”), ma dove altro sta la sua genialità? Nel fornire al pubblico americano, suo principale obiettivo, lo stesso tipo “prodotto” al quale era abituato, i filmati prodotti e interpretati dallo sceicco vanno a costruire un racconto a puntate già di molto in voga nelle case americane con il nome di serie TV, gli episodi vengono lanciati di volta in volta tramite anticipazioni su organi di stampa o TV specializzata, assumono quasi una certa regolarità, cominciando a generare la stessa ansia ed attesa di una nuova puntata.

La prima volta che abbiamo una chiara immagine di Bin Laden, è nell’immediato post 11 settembre, lo stile è semplice, la videocamera posta frontalmente al parlante che sembra assumere le pose di un commentatore televisivo stringendo quel microfono a “gelato” tra le mani. Sguardo in macchina, ponendosi in una posizione di interpellazione, siamo a metà tra il televisivo ed il teatrale, infatti, proprio come su un palcoscenico, ogni elemento che compare nel quadro ha un preciso significato, ovviamente la fisionomia ed il “costume” è così che da ora in poi immagineremo un talebano, barba lunga, turbante bianco in testa, se non fosse per la giacca militare ed il fedele kalashnikov alla sua destra, avremmo potuto scambiarlo per un santone indiano, ma no, l’immagine che si vuole dare è quella del capo dell’organizzazione terroristica più sanguinaria del momento.

E l’orologio? Anche quello è motivato, vistoso, sportivo-militare, e si verrà a scoprire, di fabbricazione americana, questo perché non si lascia nulla al caso, è importante disseminare simboli anche contraddittori, per poter chiarire che nulla in quelle immagini, ed in quella guerra, è lasciato al caso.

La Produzione audiovisiva di Al Zarqawi, si basa sul suo prevedibile ricorre a ruoli, costumi, oggetti, azioni, che trasformano quei set improvvisati in aree scarificali, dove tutto è maniacalmente preordinato e rispettato. Dalle tute arancioni, ai cappucci neri delle vittime, tutto deve lasciar presagire il tragico epilogo, in modo che l’immagine stessa diventi una sigla riconoscibile di un nuovo episodio di orrore. E qui l’industria cinematografica del terrore, colpisce con un altro format tanto caro agli USA, quello del reality-show; un reality-show del terrore è vero, dove le persone, “i protagonisti”, vengono sottomessi dalla volontà umana, dove la scelta ed il libero arbitrio delle persone vengono estremizzate dal gesto di togliere la vita.

In questo caso la regia è diversa, dalla visione mezzo busto a camera fissa, si passa ad un totale che comprende 5 uomini dotati di fucile ed uno inginocchiato vestito di arancione. Già da qui, è facile costruirsi il proseguire degli eventi. L’uomo centrale ha dei fogli in mano, si erge a giudice, giuria e boia, rappresentando chiaramente l’intenzione di ergersi a emissario di un giudizio superiore, quello divino. La camera andrà infine a stringere in primo piano sull’uomo in ginocchio, mettendo in esposizione il collo, che verrà trafitto da una lama.

E’ questa signori, la potenza delle immagini, non solo l’azione in sé che è già forte, ma uno studio attento delle dinamiche di apparizione, atto a lasciare quanto più possibile un segno tangibile del suo passaggio. Non basta la paura, non basta il terrore, anche l’arte, può essere usata come arma per colpire gli innocenti, in una guerra che non conosce pietà.