Gli anni 80 di Nino Benvenuti: emozioni e ricordi di un grande campione

“Un campione non si vede solo dai titoli, ma dagli incontri con altri uomini. Ne ho incontrato diversi e da tutti ho avuto qualcosa d’importante. Ognuno di loro ha lasciato dentro di me un’impronta”. E nel corso della sua luminosa carriera costellata da ben novanta combattimenti con 85 vittorie (35 per ko), un pareggio e sette sconfitte, sostenuti da professionista, Giovanni Benvenuti detto Nino, di avversari bravi, difficili e irriducibili ne ha affrontati parecchi, con alterne fortune e in diverse città in un ipotetico giro del mondo pugilistico durato più di un quindicennio.

In una Roma adagiata sul dolce finire dell’estate 1960, immersa nella luce d’oro dei suoi tramonti e colorata dagli sgargianti colori dei vessilli olimpici a distinguere le varie etnie, il ventiduenne pugile istriano, aspirante designato alla medaglia d’oro, pur di salire sul gradino più alto del podio scende di categoria, ben 4 chili sotto il suo peso forma, e così evita il pericolosissimo superwelter americano Wilbert Mc Clure: dopo aver battuto il francese Josselin nel turno successivo incrocia i guantoni con un anonimo asiatico dal volto di porcellana Ki Soo Kim e senza sforzi eccessivi se ne sbarazza di giustezza, quasi irridente, facendo leva sul suo formidabile jab per poi infilare, uno dopo l’altro, uno strepitoso filotto di vittorie: il bulgaro Mitsev; l’inglese Lloyd e in finale il sovietico Radoynak sono le vittime sacrificali di un successo annunciato ma non per questo meno pregiato.

“Il mio trofeo più prezioso: un titolo mondiale ha quasi sempre una data di scadenza, la medaglia d’oro olimpica invece rimane attaccata al collo per tutta la vita”.

Tra il solare italiano e lo sfuggente coreano però non finisce lì e ben altra storia li attende sei anni dopo a Seul in un combattimento valido per la cintura mondiale dei pesi superwelter. L’incontro si svolge in un ambiente ostile per il detentore stante un clima di strisciante intimidazione giustificata da un pregnante nazionalismo di cui spera di approfittare lo sfidante. I preparativi prima del suono del gong ricordano per certi versi la scena della roulette russa del film Il cacciatore magistralmente documentata dal regista Micheal Cimino alcuni anni dopo.  Questa volta però Ki Soo Kim, nel frattempo diventato pugile vero dallo sguardo cattivo, mette finalmente in mostra le caratteristiche primarie della sua gente: sangue, fegato, volontà e così riesce nell’impresa di strappare la corona mondiale al poco attento e incredulo Benvenuti, anche, per la verità, con l’ausilio di circostanze poco chiare,

Accade infatti che a un round dal termine con il triestino in leggero vantaggio di punti, per una forte e improvvisa esplosione le molli angolari che sostengono il ring collassino di botto e in questo intervallo per ripristinarle il beniamino locale riprenda fiato, morale e lena e così ringalluzzito alla fine prevalga in virtù di un sanguinoso verdetto split decision dal sapore velatamente casalingo che determina la prima sconfitta da professionista per il nostro invitto rappresentante.

“Avrei dovuto prevederlo. Un match, un avversario si studia prima. Da come si esprime capisci il suo valore e comprendi cos’ha dentro. Quello che succede intorno ha importanza relativa”.

Un vero peccato perché appena un anno prima Nino aveva prima conquistato e poi difeso quella cintura in due aspri combattimenti contro un tipo ostico, orgoglioso e temerario, il suo coetaneo e connazionale Sandro Mazzinghi. Siamo a Milano nel giugno del 1965 e nello stadio di San Siro affollato per l’occasione da quasi sessantamila spettatori, i due campioni si affrontano come galletti da combattimento sul palco allestito per l’evento storico in una specie di spareggio per dirimere la questione della supremazia nazionale: si crea una così magica atmosfera che sembra di essere tornati indietro nel tempo a rinverdire vecchie rivalità tipo Coppi e Bartali o a ribadirne altre come quella più in auge tra Rivera e Mazzola.

Il match prevedibile per il suo svolgimento stante le caratteristiche dei due pugili diventa perciò incerto e affascinante: il biondo triestino, bello, elegante e tecnico sfodera la sua scherma raffinata mentre il furibondo toscano tenta arrembanti sortite a corta distanza cercando il bersaglio grosso nell’attesa del colpo risolutivo. Alla sesta ripresa però giunge inaspettato l’epilogo in virtù di un autentico colpo di classe: un montante destro d’incontro col quale Benvenuti stende impietosamente il rivale e chiude la questione. Sbuffante come una vaporiera il bellicoso e viscerale Mazzinghi chiede e ottiene una pronta rivincita a distanza di sei mesi. Cambia la città, questa volta è Roma, ma non il risultato anche se non con lo stesso copione poiché questa volta il prode e irriducibile fighter di Pontedera con la sua boxe d’assalto restituisce colpo su colpo all’azzimato avversario che si deve dunque accontentare di una striminzita vittoria ai punti. Da quel giorno non avendo mai accettato per intero i due verdetti Sandro non rivolge più la parola a Nino. “Sarei felice se potessimo stingerci la mano e mettere una pietra sopra al passato e da uomo di vera fede spero sempre che ciò accada”. Ribadisce convinto ancora una volta quest’ultimo.

Catapultato dalla fionda dei suoi successi a inseguire la dimensione del trionfo assoluto il nostro pugile lancia in resta, passa di categoria per soddisfare il suo pensiero stupendo: il titolo mondiale dei pesi medi a quel tempo detenuto da Emile Griffith, un nero originario delle Isole Vergini pressoché imbattibile dati i suoi recenti trascorsi tra i quali si annovera la morte di Benny Kid Paret a seguito di un combattimento che definire brutale suona come un dolce eufemismo.

Il nostro non si spaventa, antesignano del Nino della canzone di De Gregori che non deve aver paura di sbagliare, nutre tutt’altro sentimento: anche lui è cosciente che un campione si giudica dal coraggio e dalla fantasia e queste sono le armi principali con cui affronta quel mostro sacro la notte del 17 aprile del 1967 sul ring del Madison Square Garden di New York con milioni d’italiani incollati alla radio. Preciso e sicuro quell’italiano dal volto pulito e dalla mente sgombra di qualsiasi pregiudizio, sfoggia un pugilato per palati fini e allo stesso tempo coraggioso che prima confonde e argina la superbia del campione e poi con il tocco di una fantasia derivata dal talento affonda a poco a poco i suoi colpi riuscendo anche ad atterrare nel corso della seconda ripresa lo stupito Griffith, costui pur riprendendosi deve cedere il verdetto ai punti e con esso l’ambito titolo. Rimane nella storia quel match capolavoro che dopo Primo Carnera consente a un altro italiano di diventare campione del mondo in terra straniera. Ma questo non è che il primo atto di una lunga e per certi aspetti incerta e appassionante trilogia sportiva: infatti come da contratto è prevista la rivincita.

28 settembre: stesso anno stesso ring, ma contenuti completamenti diversi. Nino Benvenuti appare tranquillo forse anche troppo: insidiosa e latente affiora una malintesa smania di protagonismo che aggravata da controversie famigliari lo condizionano suo malgrado. A suscitare scalpore ci pensa infatti l’inopportuna presenza nel suo entourage di una bella e appariscente signora tale Nadia Bertorello che mette in ombra la moglie Giuliana: che poi questa donna diventi in seguito quella della sua vita a quei tempi non era dato saperlo. Deconcentrato e male preparato a differenza del suo pimpante rivale molto più determinato, l’evanescente Nino, al termine di quindici riprese poco spettacolari, finisce col perdere incontro e titolo.

Lo spareggio è d’uopo e ancora una volta la città della grande mela, diventa teatro dell’evento che si disputa nel marzo del 1968. Benvenuti e Griffith ci arrivano bene: ma è la classe cristallina del primo a prevalere definitivamente sulla dirompente energia dell’altro: la piccola e sottile differenza che intercorre tra il trionfo e la sconfitta. I due diverranno veri amici:” Come non si può essere amico di uno col quale ti sei battuto per quarantacinque riprese?” e così l’americano sarà il padrino di cresima di uno dei suoi figli.

Il baldo Nino riconquistato lo scettro del re della categoria, si prepara a instaurare il suo regno. Scorrono i nomi degli aspiranti al titolo: molti battuti con sufficienza, altri con qualche impegno e qualcuno con gran fatica come l’intrepido cubano Luis Manuel Rodríguez detto El Feo che lo domina per 10 riprese e viene battuto solo con il lampo estemporaneo del suo gancio sinistro: uno dei più bei colpi mai visti sul ring. Tutto questo bagaglio tecnico, tutta l’esperienza accumulata in quasi un ventennio di attività, tutta la dedizione a una professione bella e con l’anima, non sono sufficienti a salvaguardarlo allorché spunta all’orizzonte la sua nemesi pugilistica che mostra il volto corrucciato di un indio implacabile: Carlos Monzon.
Un poco conosciuto argentino dal fisico bestiale, pugile per caso e professionista per necessità che dopo aver sballottato a suon di sganassoni per tutti i ring del paese un cospicuo numero di avversari di ogni risma, diventa campione sudamericano della categoria e dunque con le carte in regola per entrare nel novero degli aspiranti al trono mondiale. Ed è proprio costui, tra gli altri, che viene scelto come sfidante ufficiale al titolo da Nino e dal suo entourage, con una approssimazione che confina con la leggerezza. Qualcuno però avendo visto all’opera quel satanasso ingessare col suo terribile destro più di un malcapitato, sospetta che il match possa diventare la cronaca di una sconfitta annunciata.

E a Roma il sette novembre del 1970 i fatti gli danno pienamente ragione. Dentro un palazzetto dello sport stipato come un uovo davanti gli occhi increduli delle migliaia di spettatori convenuti, si compie un misfatto sportivo di grave entità: avviene la demolizione scientifica di un pugile e del suo mito. Il risoluto Carlos veste i panni di un boia spietato che deve eseguire una sentenza e in virtù di una pesantezza di colpi inusitata insegue Nino per tutto il quadrato, da collaudato incassatore assorbe con disinvoltura qualche colpo sparuto e disinnesca facilmente ogni tentativo di combinazione: al dodicesimo round esegue la sentenza con un destro terrificante che non solo mette ko il nostro rappresentante, ma mette al tappeto l’orgoglio di tutto un popolo. Ed è la molla dell’onore ferito che spinge l’emotivo boxeur triestino a chiedere un’inopportuna e frettolosa rivincita che ben presto apparecchiata va in scena cinque mesi dopo nella splendida cornice di Montecarlo: rien ne va plus e Nino gioca la sua ultima fiche sul tappeto bianco del ring nel disperato tentativo di far saltare il banco in mano al rude pugile della pampa. Mal gliene incoglie però e sulle prime neanche raccoglie l’opportuno asciugamano lanciato sul ring dal suo affezionato manager per evitargli una punizione eccessiva.

“Con Monzon inquadrarlo non serviva, Era chiuso, irrazionale. Aveva un segreto che teneva nascosto. L’ho capito soltanto dopo, se l’avessi fatto prima di certo non avrei perso così nettamente. Andai a trovarlo all’inferno dopo l’uccisione della moglie, anche spinto dal desiderio di scoprire quello che aveva dentro e non avevo saputo scoprire”.

Ki Soo Kim, Sandro Mazzinghi, Emile Griffith, Carlos Monzon: campioni peraltro affrontati più di una volta, rimangono ricordi indelebili come figurine stampate sull’album della memoria di Benvenuti. Uomini veri trascinati dalle loro storie intrise di significati diversi che hanno attraversato il suo cammino determinando il suo destino umano prima che quello professionale. Pugili tutt’altro che figli di un dio minore appartenuti a un’epoca lontana prima che tutto finisse nell’ovvio: oggi i ring sono arene frequentate da gladiatori al soldo del miglior offerente che brulicano di personaggi dalle incerte passioni. Ora che Alì è morto, e con esso il suo mito, la nobile arte ha smarrito anche la sua primaria identità; ha perso il suo fascino leggendario; ha dimenticato la sua epica e contrabbandato la sua meraviglia. Si è inesorabilmente trasformata in uno sport come un altro, spesso in qualcosa di meccanico, di confuso, di prevedibile, di opportunistico e alla fine insostenibile dal punto di vista etico: troppo lontano dall’America del grande sogno dove alcuni ragazzi strappati al carcere incrociavano i guantoni con la vita e potevano diventare fuoriclasse mentre altri vi facevano ritorno penalizzati da latenti fragilità caratteriali. Ed era soprattutto con quelli bravi che si dovevano confrontare tutti coloro che provenienti da ogni parte del globo aspiravano al successo.

Questo sogno culla anche il giovanissimo Giovanni, prima di diventare Nino, prendendo a pugni un sacco di juta riempito di mais nella sua casa di Isola D’Istria dove era il 26 aprile del 1938, quando però è costretto ad abbandonarla per le rappresaglie sanguinarie delle squadracce slave, cresce e si alimenta a dismisura in lui un’insopprimibile voglia di rivincita.

“Mi ha sempre sostenuto il senso della dignità e dell’appartenenza, Sono istriano prima e italiano poi. Ho sempre rivendicato le mie origini e ne ho fatto la mia forza”. E da questa terra eredita un’incredibile tenacia che compensa un fisico non proprio impressionante, ma oltre a essere dotato di un’intelligenza non comune si distingue per la sua tecnica: quella in parte imparata nella palestra triestina rubando con gli occhi il mestiere ai mitici danzatori Tiberio Mitri e Duilio Loi e diventata poi sopraffina quando a quelle flessuose figure egli sovrappone l’immagine del ballerino dei ballerini: Ray Sugar Robinson.

“Per me il più grande di tutti, anche di Cassius Clay futuro Muhammad Alì,” sottolinea con enfasi il nostro e riprende “Certo, Alì è stato immenso, quello che aveva capito meglio il pubblico. Aveva un dono di Dio: era un predestinato a diventare campione fuori e dentro il ring “.

Nino Benvenuti ha da poco compiuto 80 anni, è un uomo che viene da lontano, ha attraversato il tempo e percorso lo spazio: dal mare blu intenso di Trieste all’immenso oceano che porta a New York, dal fumoso e caotico ring di Seul al solenne palazzetto di Roma, dalle capienti tribune dello stadio di Milano allo splendente salotto dorato di Montecarlo ha vissuto una storia; dagli studi televisivi alle tante telecronache a bordo ring ne ha vissuta un’altra; dal salotto di casa a una esperienza di volontario in un lebbrosario di Calcutta ancora un’altra. Ora è alla ricerca del senso della vita che solo a una certa età si può trovare: senza rimorsi e senza rimpianti perché non è mai stato cattivo e pregusta la dolcezza di considerare ogni compleanno una tappa anziché un traguardo.

Auguri Nino, campione gentile dalla classe innata che ci ricorda un’altra Italia attraverso l’arte della sua boxe e rappresenta tuttora il volto onesto di chi ha sempre creduto in certi valori il cui sovente disconoscimento pregiudica la sana crescita delle nuove generazioni pugilistiche.

Vincenzo Filippo Bumbica