“Fottemo pur, fottemo allegramente”: poesie zozze in veneziano

Giorgio Baffo: chi era costui? Il Baffo – non quello sclerato delle televendite – è stato un poeta veneziano che scrisse cose molto, MOLTO irriverenti. Conosciamolo meglio…

Giorgio Baffo nasce nel 1694 nella ridente capitale Serenissima, allora un polo commerciale e culturale di primaria importanza nel bacino mediterraneo. Ultimo erede maschio della famiglia Baffo, ascritta al patriziato veneziano medio-basso, di lui non conosciamo pressoché nulla in merito alla sua formazione scolastica. Sappiamo solo che entra prematuramente nell’organo politico più importante di Venezia, il Maggior Consiglio, all’età di soli 20 anni. Inizia così la sua ascesa politica, che a partire dal 1720 lo vede impegnato a Venezia in vari organi cittadini: è incaricato prefetto urbano sotto Quaranta (ovvero alle dipendenze del Tribunale supremo della Quarantia), per dopo entrare a pieno titolo nel tribunale. Occuperò questa carica fino alla morta, ma con poche soddisfazioni personali.

A partire dal 1730, Giorgio Baffo inizia ad interessarsi della cultura filosofica d’oltralpe, avvicinandosi, grazie agli illuministi veneziani e soprattutto grazie all’abate Antonio Schinella Conti, alla dottrina epicurea. Inizia qui la sua conversione alla “poesia licenziosa”: in altre parole alla “poesia pornografica“.

Nel 1737 sposa la clavicembalista Cecilia Sagredo in modo del tutto anticonvenzionale, guadagnandosi le critiche da parte del padre, Zan (ovvero Gian) Andrea. Ciononostante, la famiglia auspicava ad un erede maschio e fece passare sotto silenzio questa unione un po’ sgangherata. Ironia della sorte, il nipote maschio non nacque mai, costringendo la casata Baffo all’estinzione.

Dagli anni ’50, Giorgio Baffo si distacca sempre di più dalla politica, conducendo una vita sempre più licenziosa al di fuori delle istituzioni e divulgando le sue poesia – in un primo momento solo orali – e rifiutando la pubblicazione da parte degli inglesi, nonostante le grandi somme di denaro che gli proponevano gli editori d’oltremanica. Poco importa: una volta morto (1768), gli inglesi decidono di pubblicare comunque le sue poesie, trascurando ovviamente i componimenti “seri”, prediligendo la poesia pornografica.

Poesia pornografica. Aspettavate solo questo, ammettetelo. Giorgio Baffo compose un corpus di 1200 poesie, tutte in stretto dialetto veneziano. Nessuno si ricorda dei suoi componimenti filosofici e morali. Anzi: forse nessuno lo ricorda affatto, povero Baffo! Il tema principale delle sue poesie è uno solo: il sesso. Sesso, solo sesso sfrenato e volgare, degno delle moderne agenzie pornografiche. Eccovi qui un saggio del gusto perverso di Giorgio Baffo.

ATTENZIONE! Ciò che andrete a leggere è esplicito e senza censure. Non si è convenuto tradurre in italiano moderno, sia per non rovinare la verve del poeta sia perché risultano essere comunque comprensibili al lettore moderno. E visto che di poesie zozze ci siamo già occupati, non ci resta che presentarvi lui, l’inimitabile Giorgio Baffo con le sue poesie erotiche! Iniziamo!

Anzi: iniziamo col botto…

Dame la Mona. Oh! Dìo, zà vegno dentro,
Zà me par de morir, debotto sboro,
Che dolcezza in sborar,che gran contento,
Questa è la volta che sborrando moro.

Felice mi ghe digo a sto momento,
Tenir el Cazzo in Potta al mio tesoro,
Ma oh! Dìo che sboro ancora, e za me sento
morir dal gran piacer: Mona t’adoro.

Ma zà el cazzo me tira:oh! Dio no posso…
Vegno dentro, oh! che gusto ,oh! che sollazzo.
Dame le tette, Za te son addosso.

Tiote quel che ti vuol, no me n’impazzo
Pur che ti spenzi quel to Osello grosso.
Sì, Cara, zà ho sbora’ con tutto el Cazzo

Beh. Nulla da dire. Tutto chiaro e cristallino. Ammettiamo che forse questo primo impatto con Giorgio Baffo è decisamente icastico e rappresentativo della singolare poetica (e personalità, prima di tutto) del nostro autore, ma se la cosa vi incuriosisce non potete non continuare a leggere le stravaganti avventure sessuali del Baffo. Ecco qui un altro assaggio. Si: solo un assaggio. Il bello deve ancora venire…  Abbiamo detto “venire”? Non c’è più religione…

Gran beni, che la Mona al Mondo fà,
Ella cava la fame ai affamai,
Ella veste quelli, che xe despogiai,
E alloggio ai pellegrini ella ghe dà.

Con certo liquoretto, che la gà,
Ella cava la sè a chi è arsirai,
Ella consola tutti i appassionai,
E la ghe dà salute all’ammalà.

Me stupisse, che tante gran nazion,
E trà l’altre i Egizj zente dotta,
Abbia bù per le bestie devozion;

I hà adorà sin la Rana, e la Marmotta,
El Cazzo ancora hà bù le adorazion,
E mai gnessun no gà adorà la Potta.

Niente da dire sulla “mona”. Non Lisa, evidentemente: la “mona” resa famosa dal bestemmiatore più incallito della televisione italiana Germano Mosconi: la figa, in poche parole! La poesia seguente si intitola “Me tira el Cazzo“.

Me tira el Cazzo, che ’l me và in malora,
Me pizza la capella, e più no posso,
L’è duro, come un ferro, come un osso,
Adesso el se corrompe, adesso el sbora.

Deh! cara vita mia, cara Signora,
Leveme vìa sea malatia da dosso,
Tastè co ’l scotta, vardè co l’è rosso,
Palpè, che la lussuria và per sora.

Slarghè le gambe, e quel Monin da latte
Sporzeme, caro ben, sulla spondetta,
Lassè, che metta un deo trà le culatte.

Oh! Mona cara, siestu benedetta,
Care ste culattine, e chi l’hà fatte,
Cara Potta, ben mio, ti xe pur stretta

Ancora sul batacchio, il Giorgio non si trattiene proprio! Che metta in mostra le sue doti amatorie, la lunghezza del suo… coso, o forse cerchi di compensare qualche mancanza questo non lo possiamo sapere. E meno male che non lo sappiamo!

Caro Cazzo, che in fondo della panza
Ti xe là fatto, che ti par un palo,
Che se una Donna te vien a cavalo
Ti me deventi un Paladin de Franza.

D’ordinario ti gà la bell’usanza
De dormir su i cogioni, e farghe ’l calo,
Ma se d’un Cul te vien fatto regalo
Ti salti sù con tutta la baldanza.

De zuccaro ti è fatto, come un pan,
E le Donne te crede un donativo,
E ’l più bon, che se possa darghe in man;

Co le vuol, de sto gusto no le privo,
Ghe ’l dago ancuo piuttosto, che doman
E ghe ’l dago per bocca, o in lavativo.

Eccovi qui una poesia intitolata “Bontà d’una villana“. Perspicaci come siete, ormai capirete cosa è la “piva” che Giorgio Baffo tiene in mano… Oggi questa sarebbe molestia, molestia pura! Che contadina dai facili costumi: villana o puttana? Questo dovete dirlo voi.

Sull’erba una Villana zovenotta
Ho trovà sola un zorno, che dormiva;
Quando ho capìo, che gnente la sentiva,
E mi bel bello toccheghe la Potta.

La s’hà svegià, la xe restada in botta
Vedendome, che in man gavea la piva,
La dise, cosa xe sta robba viva,
E mi ghe digo, un Cazzo, che ve fotta.

No la fà brutto a sto parlar el muso,
E mi tiò l’occasion, che la me dona,
E tireghe le corrole ben suso;

Co ho visto, che la xe una bona Dona,
Che la se mette colla panza in suso,
E mi senz’altro mettighelo in Mona.

Non possiamo elencarvele tutte (anche a rischio di una denuncia). Rimandiamo perciò alla versione completa, che potete trovare anche su Wikisource, sotto la voce “Giorgio Baffo“. Ma vogliamo lasciarvi con quello che, nella nostra ricerca, è davvero l’apoteosi della sconcezza pornografica di Baffo.

Ho volsudo chiavar un dì a passin
Una certa Bettina Castellana,
L’ho vista in casa in tempo de Caldana;
Che la giera in camisa, e in sottanin.

Fin, che le Tette gò toccà un tantin
Se m’hà ’l Cazzo indurìo, come una cana,
Quà l’ho tratta sul letto a mo puttana
Col Culo in sù, che giera grasso, e fin.

Dopo gò dito, senti, cara Betta,
Mi addesso coll’Osel te vegno sora,
Sporzime ben la Mona, che tel metta;

Ma in pè, ch’in Mona in Cul l’ho messo; allora
La s’hà taccà a zigar, ti falli, aspetta,
Ti me xe in cul…, ma non importa, sbora.

Farse chiavar voleva una Puttana“, “El puttanesmo, quel mestier sì bello“, “Gò visto l’altro zorno ‘na puttana“, “Hò toccà tanti Culi, e tante Mone“… Già i titoli di alcune poesie della raccolta vi dicono tutto. Forse potreste imbattervi in qualche intercalare veneziano un po’ difficile da comprendere, ma il senso generale vi sarà più che perspicuo. Non potrete fraintendere la schiettezza e la volgarità del Baffo. E se si è urtata la sensibilità di qualcuno, credeteci: non si è fatto apposta!