Alzheimer: contagioso o no?

Alcuni recenti studi inglesi hanno certificato che il morbo di Alzheimer potrebbe essere contagioso. Subito la notizia si è diffusa fra i maggiori quotidiani che hanno divulgato la possibilità di contrarre l’Alzheimer attraverso alcune procedure mediche come le trasfusioni di sangue. L’ipotesi arriva da Londra, dal’equipe guidata dal professor John Collinge.

I neurologi londinesi hanno analizzato il cervello di 8 persone morte in giovane età a causa di una malattia da prioni, sviluppata in seguito all’assunzione di ormoni della crescita infetti. Questi agenti patogeni sono assimilati a dei virus sebbene siano catalogati come agenti infettivi di natura proteica che intaccano il sistema nervoso centrale, ovvero direttamente cervello e tronco encefalico, e sono in grado di infettare le cellule circostanti. Ecco perciò quali aspetti possono avvicinare i prioni ai virus: nella riproduzione, i virus “sfruttano”, attraverso l’infezione, le cellule ospiti per dopo rigenerarsi, utilizzando i suoi organi. Fino alla metà degli anni ’80, i medici prelevavano dall’ipofisi dei cadaveri (una ghiandola parte nell’encefalo) sufficienti quantitativi di ormone della crescita per poter produrre una dose farmaceutica. Ma il trattamento con ormoni della crescita prelevati da corpi infetti da prioni ha contribuito allo sviluppo del morbo “mucca pazza”. Oggi però tale problema non sussiste più, in quanto l’ormone della crescita viene prodotto utilizzando le tecniche di DNA ricombinante, ovvero una specie di “taglia, copia e incolla” di piccoli frammenti di DNA.

Cosa centra questo discorso con il morbo di Alzheimer? Studiando questi 8 cadaveri i neurologi hanno trovato anche alte concentrazioni di beta-amiloide, ovvero un peptide, una proteina, che è costitutiva delle cosiddette “placche senili” che, oltre ad implicare un gene del cromosoma 21, sono anche responsabili della malattia di Alzheimer. Possiamo concepire queste placche senili come delle masserelle, degli agglomerati di frammenti di cellule nervose che causano la demenza degenerativa, ovvero l’Alzheimer. Il discorso si potrebbe infittire ancora di più, ma ciò è sufficiente a fare intendere il coinvolgimento del morbo di Alzheimer nei processi ereditari e nelle malattie di origine proteica o, come detto prima, da prioni.

Gli 8 cadaveri, dunque, pur avendo possedendo la proteina beta-amiloide nel cervello, non avevano subito alterazioni genetiche che avrebbero permesso l’insorgere del morbo di Alzheimer. Una tale scoperta è sicuramente rilevante, dal momento in cui potrebbe essere stata scoperta una nuova forma di trasmissione del morbo, ma l’approccio dell’editore di “Nature” è stato piuttosto prudente ed è stato specificato in modo esplicito che gli studi non portano ancora alla certezza di una possibilità di contagio del morbo di Alzheimer.

La stessa ipotesi è stata addotta anche da un altro gruppo di ricerca, quello del University of Texas Health Science Centre di Houston, che ha notato come alcune forme di Alzheimer insorgerebbero con gli stessi meccanismi dell’encefalopatia spongiforme bovina, ovvero come il morbo della mucca pazza. “I processi che porterebbero alla mucca pazza potrebbero condurre anche all’insorgenza del morbo di Alzheimer” commenta Claudio Soto sul Molecular Psychiatry.

Come è dunque possibile giungere a contrarre l’Alzheimer? Si è detto finora che l’origine può essere di natura proteica. Un paragone banale, ma che può far capire a tutti come si inneschi il processo di cui si sta palando, lo si deduce dall’oncologia. Per spiegare ai più come si originino i tumori dal punto di vista eziologico, viene detto che una cellula sana “impazzisce” e inizia a generare centinaia di cellule malate. Allo stesso modo si comporterebbero le proteine del cervello: le proteine malate di accumulano nelle placche ed eliminano

le cellule neurali. Per dimostrare questa tesi, i ricercatori texani hanno iniettato tessuto cerebrale malato su delle cavie e confrontando i risultati con altri animali in cui era stato iniettato tessuto sano. Il cervello dei topi si è ammalato nel caso in cui veniva a contatto con tessuto malato, generando l’insorgenza di alterazioni tipiche dell’Alzheimer. Obiettivo dei ricercatori è capire se la trasmissione può avvenire attraverso vie più naturale, senza necessariamente agire all’interno dell’encefalo.


Il neurologo Giancarlo Comi, Direttore del dipartimento neurologico e dell’istituto di neurologia sperimentale (Inspe) del San Raffaele di Milano, in merito alla questione, afferma che sarebbe necessario valutare se non ci sia qualche forma di interazione nei pazienti che hanno ricevuto ormone della crescita ed escludere un eventuale ruolo di questo ormone nel facilitare questo tipo di depositi. Insomma: secondo Comi, bisognerebbe generalizzare il più possibile i risultati ottenuti, accertandosi che i casi analizzati non abbiano avuto qualcosa in comune che avrebbe garantito gli stessi risultati negli esperimenti compiuti.

 

Andrea Colore