Walter Chiari, l’arte della spontaneità di un eterno ragazzo

Sulla bilancia della vita anche un grammo può fare la differenza tra il bene e il male. La discesa agli inferi di Walter Chiari ebbe questo peso sul piatto del suo destino: la quantità di cocaina che gli trovarono addosso quando il 22 maggio del 1970 venne arrestato con l’accusa di consumo e spaccio di droga, mentre si recava agli studi radiofonici di via Asiago a Roma.  

Un’accusa infamante, quest’ultima, prosciolta l’anno dopo, mentre la pena condizionale per l’uso personale estinse l’altro reato: in ogni caso si trattò di una sporca faccenda che gli costò ben 100 giorni di carcere durante i quali, oltre al dispiacere di essere informato della nascita del figlio Simone da un secondino, cominciò a vedere il mondo da un oblò anziché dalla terrazza panoramica su cui era abituato.

Da quel momento niente fu come prima: eliminarono i suoi Caroselli; il teatro Sistina lo cancellò; la moglie Alida Chelli lo lasciò e i suoi amici, soprattutto quelli che aveva beneficiato, generoso com’era, sparirono. Il perbenismo sociale e l’ipocrisia diffusa ne fecero un uomo abbandonato a sé stesso.

Nel 1986, dopo aver tentato invano di risollevarsi, lui il numero uno ridotto a spettacolini in emittenti locali per sbarcare il lunario, provò l’ultimo dolore dal quale non si riprese più: candidato per il film “Romance” alla Coppa Volpi come premio al migliore attore del festival di Venezia a sorpresa gli fu preferito Carlo Delle Piane. Doveva ancora pagare e pagò. Visse il resto della sua vita solo, stanco e deluso in uno squallido residence dove venne trovato morto la notte del 20 dicembre del 1991.

“Amici non piangete è solo sonno arretrato”. Questa geniale e dissacratoria battuta, una delle sue, confidata all’amico regista Dino Risi, gli sarebbe molto piaciuto fosse diventata l’epitaffio scritto sulla sua lapide. Non fu così, ma la storia triste di un uomo che faceva ridere, ridotto in miseria dopo aver guadagnato miliardi e ferito dal voltafaccia del suo pubblico, alla fine, ma solo alla fine, rimase bene impressa nella memoria collettiva.

La sua carriera cominciò a 17 anni raccontando barzellette, con uno stile tutto proprio, agli operai della Isotta Fraschini, fabbrica in cui lavorava. Attraente, simpatico e prestante per via d’un fisico irrobustito dalle tante pratiche sportive: in primis il pugilato col lusinghiero risultato di diventare campione lombardo dei pesi piuma, il baldo giovanotto stufo dagli annunciati fallimenti lavorativi e affascinato dal luccicante mondo dello spettacolo, cominciò ben presto a calpestare le polverose e cigolanti tavole del teatro leggero e qualche anno dopo eccolo inserito a pieno titolo nella compagnia di rivista capeggiata da Marisa Maresca.

Siamo in pieno dopoguerra e quel milanese adottivo dal fascino naturale che di cognome faceva Annichiarico, era nato a Verona nel 1924, ma aveva tre anni quando con la sua famiglia si trasferì nella città dei navigli. Crescendo, scoprì di essere dotato di una rara qualità: quella affabulatoria del brillante improvvisatore che sfruttò appieno appena si presentò l’occasione.  Eccolo dunque impegnato in tutta una serie di spettacoli leggeri tra la fine degli anni 40 e l’inizio dei 50: Simpatia, Allegro, Burlesco e Sogno di un Walter con Carlo Campanini e Dorian Gray: tra i tanti i titoli più significativi. Nel frattempo oltre alla collaborazione con Vittorio Metz come autore di testi, il camaleontico Walter si fece valere al cinema dove a sorpresa rivelò doti inconsuete per un attore brillante addirittura meritandosi il prestigioso del nastro d’argento come migliore esordiente nel drammatico film” Vanità”, diretto nel 1947 da Giorgio Pastina.

Comico e tragico, sfacciato e timido diventò un personaggio e il grande pubblico lo accolse con favore nei successivi ruoli in film commedia come “Totò al giro d’Italia” dove interpreta un giornalista pedante e in “I cadetti di Guascogna” un’amena storiella al fianco di Ugo Tognazzi.

Finché un giorno del 1951 il geniale Luchino Visconti, regista dalla grande capacità innovativa, si ricordò del suo talento non del tutto espresso e lo impose come perfetto protagonista maschile di “Bellissima” accanto alla suprema Anna Magnani. Nella vicenda che come uno specchio riflette una certa realtà sociale di quegli anni, Walter Chiari interpreta il ruolo di Alberto Annovazzi, un traffichino millantatore dal falso sorriso che nasconde la sua vera natura di cinico opportunista pronto a sfruttare in qualunque circostanza le altrui debolezze umane.

Nonostante questo successo acclarato, Chiari continuò imperterrito la spola tra set e sipario proponendo trame, situazioni, contesti e personaggi sempre diversi e in quel decennio passò con disinvoltura dalle commedie musicali: “Buonanotte Bettina” con Delia Scala e “Un mandarino per Teo” assieme a Sandra Mondaini; al teatro di prosa recitando con Gianrico Tedeschi in “Luv” e Renato Rascel ne “La strana coppia”; e trovò, infaticabile, anche il tempo per girare in rapida sequenza tre film: “Un giorno in pretura”; “Accadde al commissariato”; e “Accadde al penitenziario”.

Ormai viaggiava a doppia velocità sui binari dello spettacolo italiano, sempre alla ricerca di nuove avventure, lo schermo cinematografico e il palcoscenico bastavano appena a contenere la sua energia dirompente che riuscì benissimo però a incanalare nel totem domestico degli anni 60: la televisione. E siccome s’intrufolava spesso nelle case degli italiani eccolo oggetto delle più morbose attenzioni dei rotocalchi anche perché a lui piaceva molto convogliare altre galanti attenzioni alle donne specie quelle belle, ricche e famose.

Aveva cominciato presto a desiderarle, a corteggiarle, a conquistarle: Delia Scala, Elsa Martinelli, Maria Gabriella di Savoia e Ava Gardner le più note, ma fu soprattutto Lucia Bosè che gli aprì una piaga in mezzo al petto mai più sanata.

Ma lo spettacolo era il suo mestiere, la sua vanità e nel pieno dei suoi anni Walter diede il meglio di sé. Le sue apparizioni in tv, condite da barzellette esilaranti in cui incastrava monologhi arguti e divertenti, animate da tic e veri e propri movimenti sincopati quasi jazzistici, infarcite da trovate surreali e folate di doppi sensi, erano prodigiose.

La sua produzione artistica di quel periodo ripropose sketch famosi del passato “Sarchiapone” in testa, con la collaborazione dell’insostituibile Carlo Campanini perfetta spalla anche per la parodia dei fratelli de Rege. Ma fu soprattutto la conduzione del programma Studio Uno, regia del bravissimo Antonello Falqui, accanto a Mina, con la quale ebbe un lungo flirt, a consacrarlo idolo indiscusso. Una marea di film disimpegnati, spesso a episodi, che raccontavano le peripezie di uomini mascalzoni, di tipi da spiaggia, di mariti in città, di zitelloni, imbroglioni e motorizzati, al contempo ne fecero un elemento di spicco della commedia italiana quasi al pari dei magnifici Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi e Marcello Mastroianni.

Il tempo dei castelli in aria, delle casette in Canada, dei fotoromanzi a puntate, delle commedie di Garinei e Giovannini era finito da un pezzo, ma quell’inguaribile romanticone che era Walter, continuava a sognare. È questo il personaggio che più lo caratterizza. Quello per intenderci protagonista del film” Il giovedì”. Un padre immaturo, uno che ha dissipato affetti, uno smemorato che si fa perdonare, un randagio scavezzacollo senza arte né parte, ma anche un uomo generoso, dal cuore tenero e dallo spirito divertente, con l’animo spensierato di un bambino che insegue radiosi domani sulle ali della fantasia. In fondo a essere così ci vuole troppo ma tanto coraggio: quello che ha dovuto chiedere a sé stesso dal maledetto giorno in cui si è trovato in tasca quella roba che lo spiritello inquieto dentro di lui reclamava a gran voce. Diceva Ennio Flaiano: “Tutto si perdona tranne il successo”, ma prima bisognava averlo e soprattutto mantenerlo.

Vincenzo Filippo Bumbica