Vivien Leigh: Rossella nel cuore e Blanche nell’anima

Quando si presentò al provino, mentre sul set esplodevano i rossastri bagliori del cielo di Atlanta, tutti si accorsero con uno sguardo che quella giovane attrice era pronta ad entrare nel cuore del personaggio.

Rossella O’ Hara, finalmente asciutta dagli schizzi d’inchiostro dopo un lungo girovagare nel quale si era specchiata a lungo nelle affascinanti ma diverse fattezze delle varie pretendenti, quali Bette Davis, Katharine Hepburn, Barbara Stanwyck, Joan Crawford, Lana Turner e Joan Fontaine, non poteva essere che lei: Vivien Leigh. La sua era una bellezza incantevole a cominciare dal collo, delicato come il vetro soffiato, che sosteneva  un volto di porcellana dove guizzavano penetranti occhi verdi che trafiggevano il cuore assieme a una invitante boccuccia di rosa pronta ad attrarre baci mentre il nasino all’insù sprizzava dalle narici frementi capricciosità o malcontento.

Inoltre c’era qualcosa di speciale nella sua recitazione che filtrava, con la naturalezza di un sospiro e la velocità di un battito di ciglia, un certo non so che di comunicativo con un’espressività unica perfetta a illustrare quel contesto unico.

Tra fruscii d’abiti, ridondanti scenografie, frenetici colpi di ventaglio e vezzose posture ammiccanti, ecco immortale in tutto il suo sfolgorante apparire, la leggendaria eroina del romanzo di Margaret Mitchell, bizzosa, determinata e civettuola protagonista di “Via col vento” del 1939. E da quel giorno in poi il suo domani sarebbe sempre stato un altro giorno.

Infatti l’anno dopo, sull’abbrivio di quell’enorme successo, in coppia con il bello dei belli, un Robert Taylor al massimo della forma, gira: “Il ponte di Waterloo” un ben congegnato melodramma patriottico infervorato e scandito dalle toccanti note del valzer delle candele.

Passano dieci anni, tra qualche film e tante recite, ed ecco che il suo destino perfetto di grande attrice divenne un desiderio dell’anima quando uno strano personaggio in preda a turbamenti, deliri e malinconie, come spinto da una forza irresistibile più che essere scelto, la scelse possedendola. Vivien Leigh trovò il suo alter ego teatrale con l’entusiastica approvazione del suo creatore, il drammaturgo Tennessee Williams, per l’intensa interpretazione di un’opaca figuretta dallo sguardo annacquato per il vizio di tirare il collo alla bottiglia. Una simbiosi totale figlia dell’ostinato coraggio di accettare un ruolo cosi scabroso, che ben presto trasferì dalle tavole di Broadway a dietro la macchina da presa. Biondi capelli stopposi, sigaretta ben incollata alle dita e dimessi abiti da bibliotecaria di provincia, ecco che da uno squallido ambiente suburbano emerge, piccola e fragile vedova sessualmente repressa, la stralunata Blanche Dubois, psicotica ma tenera sognatrice di “Un tram che si chiama desiderio”.


La ferrea volontà dell’una (Rossella) e la dolorosa astrazione dell’altra (Blanche), testimoniano una diversa tempra di due figure femminili oscillanti tra opposte ma sottilmente complementari personalità messe a nudo anche dal rapporto con gli uomini: lo spavaldo gaglioffo Clark Gable che non riesce a conquistarla e il rude maschilista Marlon Brando che la travolge. Queste due impeccabili e monumentali interpretazioni le valsero altrettanti premi Oscar, quasi a ribadire paradossalmente il suo affascinante e singolare modo d’essere improntato, con una cadenza impressionante, alla simbologia del doppio.

Nella valenza positiva il doppio può essere considerato femminile, intuitivo e corrisponde all’istinto di protezione, mentre nella valenza negativa può essere avido, soffocante e frustrante. L’aspetto frustrante è derivato dalla delusione e dall’insoddisfazione dello spirito umano cui sia sempre negata la prima posizione.

E quella divenne ben presto l’aspirazione principale di Vivian Mary Harteley, nata in uno spicchio di Bengala chiamato Darjeeling nel 1913, che già a tre anni deliziosa bimbetta recitava nel gruppo amatoriale della madre e qualche anno più tardi fin troppo vivace fu mandata a studiare in un severo collegio di suore dove conobbe e condivise la passione per la recitazione con l’amichetta, anch’essa futura attrice, Margaret O’Sullivan.

Completata la sua istruzione in giro per l’Europa, fece ritorno a Londra nel 1931 e si affacciò alla vita con le idee molto chiare, pur con qualche eccentricità di troppo a cominciare dal precoce incapricciarsi per il maturo, colto e raffinato amante dell’arte, avvocato Hebert Leigh Holman, un non proprio fervente ammiratore del mondo dello spettacolo, che sposò lo stesso: una figlia Suzanne e un cognome Leigh fu tutto quello che le rimase di lui.

Nel 1935, impegnata nella recita teatrale “The Mask Of Virtute”, incontrò per la prima volta Laurence Olivier il divino, attore di gran classe, bello, fascinoso, ammirato e di riconosciuto carisma. Il loro amore, prima clandestino, dovette sottostare ai severi dettami dello star system prima di sfociare in un’ardente passione anche professionale che li portò a mettere in scena l’eccellente repertorio della grande tradizione classica inglese: il teatro con la T maiuscola.

Il cinema fu l’eccezione che conferma la regola: una ventina di titoli e niente più. Solo la sua straordinaria capacità d’interpretare, al momento giusto assimilandone in tutto e per tutto movenze particolari e significati reconditi, quei due personaggi assolutamente unici e immortali l’avrebbe proiettata nel mito.

Vivien Leigh convisse per tutta l’età adulta con un disturbo bipolare che mise a repentaglio più volte la sua carriera e con una tubercolosi mal curata che la portò in braccio alla morte nel 1967, a soli cinquantaquattro anni.

A contrastare la sua lugubre spietatezza nessuna cantilena funebre: Vivien dispose di spargere le sue ceneri al vento che quando spira da quelle parti carezza il suo ricordo suonando per lei il valzer delle candele, l’eterno leit motiv che precede tutti i domani del mondo.

Vincenzo Filippo Bumbica