L’obesità rappresenta la prima causa di insorgenza di Diabete di tipo 2, in soggetti geneticamente predisposti. Questo il punto di partenza del lavoro di due gruppi di ricerca, l’italianissimo IFC-CNR e l’Università del Texas, che hanno studiato gli effetti di una molecola, nota come exenatide, in pazienti prediabetici di tipo 2. Studi che hanno condotto ad un risultato forse inaspettato, ma certo interessante: diabete ed obesità hanno qualcosa in comune e ciò può essere usato per curare quello che è, in fondo, uno dei mali del nostro tempo.
Il Diabete di Tipo 2 è determinato da una duplice disfunzione: insulino-resistenza, o insulino-deficienza relativa, e rilascio continuo di glucosio nel sangue, dovuto ad un’eccessiva produzione di glucagone, come se il corpo si rifiutasse di rispondere al segnale dell’insulina. A differenza del diabete di tipo 1, in cui la somministrazione di insulina risulta avere un ruolo fondamentale per la vita del paziente, la terapia abituale del tipo 2 prevede l’impiego di metformina o sulfaniluree, allo scopo di stimolare il metabolismo del glucosio. La metformina, in particolare, è in grado di combattere la resistenza all’insulina e di portare al paziente benefici a livello sistemico. Agisce, dunque, non solo sul controllo quantità di glucosio nel sangue, ma anche sul metabolismo dei grassi e sulla pressione sanguigna, regolando l’assorbimento del glucosio anche a livello del cuore. Proprio per le sue proprietà, essa rappresenta spesso una terapia risolutiva che migliora enormemente la qualità di vita del paziente. Alcuni casi clinici, tuttavia, necessitano di un trattamento accessorio oltre alla metformina. È a questo punto che entra in gioco l’exenatide, un farmaco incretino-mimetico ovvero che si comporta come le incretine, due ormoni prodotti a livello intestinale, GLP-1 (Glucagon-like peptide 1) e GIP (Glucose-dependent insulinotropic peptide), che hanno lo scopo principale di regolare la glicemia in vari modi. Tra i due, il GPL-1 risulta essere più incisivo, considerata la sua capacità di proteggere le cellule del pancreas dalla degenerazione, ma anche il più instabile. L’exenatide si presenta come un’alternativa più stabile e, per tanto, più efficace che agisce inducendo la produzione di insulina solo in risposta all’assunzione di zuccheri.
La scoperta
Sembra che l’exenatide abbia un asso nella manica. La sua azione è in grado di ripercuotersi non solo su fegato e pancreas, ma anche a livello del cervello, inducendo un precoce senso di sazietà. Si è visto che una singola somministrazione del farmaco è in grado di attivare le zone del cervello deputate al controllo della fame e dell’appagamento dovuto al cibo spegnendo, di contro, l’ipotalamo, responsabile dell’appetito. Il risultato? Minor fame, minor assunzione di cibo e, conseguentemente, perdita di peso che, potenzialmente, può essere mantenuta anche dopo la sospensione della terapia. Si tratta di un fenomeno già osservato nei pazienti che usano incretino-mimetici, ma fino ad oggi non adeguatamente supportato da prove scientifiche.
Come già da tempo si sospettava, dunque, le malattie legate all’alimentazione non sono solo una “questione di pancia”, ma anche, se non soprattutto, un “fatto di cervello”. Questo risultato offre una nuova speranza ai pazienti affetti da obesità che, fino ad oggi, hanno avuto a disposizione ben poche armi per combattere il proprio male al di fuori della chirurgia bariatrica.
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