“Race”: Jesse Owens e i suoi 4 ori olimpici nella Germania nazista

Che il cinema e lo sport si siano spesso trovati a “giocare” insieme, non è una novità. Moltissimi film parlano di sport e raccontano, spesso attraverso il genere biografico, le storie di atleti (e non solo) che hanno fatto della loro vita un “trampolino di lancio” per superare i propri limiti ed inseguire il sogno di conquistare trofei e medaglie, o di compiere imprese da molti considerate impossibili, per rimanere nella storia. Ma i film sullo sport non sono solo questo. In molti casi sono lo spunto per raccontare qualcos’altro. Non solo il percorso dello sportivo, ma anche l’umanità dei protagonisti dietro questa professione: il loro spirito di sacrificio per migliorare se stessi, la loro caduta e la loro “risalita” (ad esempio in “Rocky”, “Cinderella Man”, “The Fighter”), le loro contraddizioni (in“Toro Scatenato”, “Il Maledetto United”, “Lo spaccone”), il contesto storico in cui loro traguardi sono stati raggiunti (“Fuga per la vittoria”, “Invictus”).

In “Race”, di Stephen Hopkins viene narrata la storia di Jesse Owens, un atleta di colore  che divenne vera e propria leggenda dell’atletica leggera, vincendo quattro ori nelle olimpiadi del 1936 svoltesi a Berlino e stabilendo nella stessa gara ben 4 record mondiali, rimasti imbattuti per molti anni.

La sua vicenda personale è segnata dall’opportunità di accedere all’Università statale dell’Ohio, ottenuta grazie alla sua straordinaria velocità e al suo indiscusso talento sportivo, senza i quali, a causa della penetrante e indomita discriminazione razziale, non avrebbe mai ottenuto l’accesso all’istruzione. E’ solo il primo passo del “sogno americano” di Owens (interpretato da Stephan James), che, sfidando i pregiudizi della società e il razzismo, si qualifica ben presto per il traguardo più grande: le olimpiadi nella Germania nazista, intollerante e xenofoba nei confronti dei neri e degli ebrei.

E’ così che la storia del singolo si inserisce in una cornice più grande: l’incompatibilità dello “spirito libero” dei giochi con l’ideologia elitaria e razzista dei nazisti. Storicamente, infatti, ne sorse un delicato problema politico, che portò, soprattutto negli States, alla formazione di movimenti per il boicottaggio delle olimpiadi (nel film il dibattito è affidato a due attori del calibro di Jeremy Irons e William Hurt) proprio per dimostrare il dissenso verso le violazioni dei diritti umani operate dalla Germania di Hitler. Alla fine il boicottaggio non avvenne: l’America partecipò ai giochi, ma molti atleti tra cui lo stesso Owens subirono pressioni mediatiche per non partecipare.

La pellicola, scegliendo la via biografica, si concentra su questi elementi quanto basta per metterli  in relazione con la storia di Owens, al fine di ricostruire l’atmosfera e la pressione psicologica che pesarono sull’atleta in quella celebre gara.

I suoi allenamenti, l’evoluzione della sua vita dopo gli iniziali successi, i suoi amori, il suo rapporto con l’allenatore (un buon Larry Snyder), il peso e le responsabilità della scelta di andare o non andare alle olimpiadi sono raccontate con abilità e fluidità, senza indugiare eccessivamente in “pateticismi” che sono il rischio maggiore dietro ogni film biografico. Le vicende romanzate ci sono ed è evidente, ma non risultano sgradevoli per lo spettatore, né noiose, né capziose. E’ vero che forse alcuni personaggi del Reich potevano essere resi in maniera meno “macchiettistica”, ma ciò non intacca comunque la sostanza dei contenuti.

Per quanto riguarda i temi trattati, proprio perché la narrazione si pone dalla prospettiva di un atleta, per il quale gareggiare significava elevarsi socialmente e realizzare se stesso, l’ideale che prevale è ,infine, quello dello sport, della libertà e dell’uguaglianza di tutti gli uomini dinnanzi ad una competizione che li vede parimenti opposti, in cui, come dice Owens in una battuta del film: “Non vi sono bianchi o neri, ma soltanto lenti e veloci”.

E’ questo il  principale messaggio della pellicola, perfettamente incarnato dall’ amicizia (veramente esistita) tra Owens e il tedesco Luz Long, campione in carica del salto in lungo, che fu sportivamente battuto dall’atleta dell’Ohio.

Si abbandonano così le speculazioni politiche per ritornare al vero protagonista dei giochi: lo sport, nonostante sullo sfondo si intravveda come le olimpiadi fossero state per la Germania uno “specchietto per le allodole” per  convincere gli altri paesi della sua tolleranza, quando invece, nell’ombra, si perpetuavano spietate politiche di discriminazione, soprattutto contro gli ebrei.

Ma nemmeno gli Stati Uniti sono esenti da critiche, a causa della loro ipocrisia nell’utilizzare i propri campioni per vincere le olimpiadi, senza riconoscere loro, però, i diritti che ad essi spettavano come uomini, a prescindere dal colore della loro pelle. Ed il titolo del film è portatore di questi valori,  dato che il termine “race” in inglese vuol dire sia razza che gara, quasi che la funzione della parola sia quella di indicare che non esistono limiti di alcun genere per partecipare e vincere.

Francesco Bellia