Paralimpiadi 2016, ecco cosa sono e come sono nate

Con la cerimonia di chiusura dei XV Giochi Paralimpici estivi di Rio de Janeiro, tra le strade si respira un ritorno alla normalità spegnendo quei riflettori da palcoscenico che avevano tenuto in scacco la città per forse troppo tempo. E così tra falle organizzative, polemiche, bilanci economici che hanno lasciato l’amaro in bocca, basti pensare che fino a pochi giorni prima l’inizio dei Giochi erano stati venduti appena la metà dei biglietti rispetto ai due milioni e mezzo previsti, in aggiunta a gaffes varie, come quella che ha travolto la campagna di Vogue Brasil che ha fatto discutere per aver “preso in prestito”, grazie all’utilizzo di Photoshop, protesi alla gamba e braccio amputato dei due atleti paralimpici della nazionale brasiliana, Bruna Alexandre e Renato Leite, per cucirli ed adattarli all’attrice Cléo Pires e al suo collega Paulo Vilhena, si stima che le cose non siano andate poi così male. In totale pare vi abbiano partecipato oltre 4000 atleti provenienti da più di 160 paesi diversi, senza contare il fatto che la nostra orgogliosissima Italia è riuscita a piazzarsi nella top ten della classifica dei medaglieri degli stati partecipanti, conquistando un risultato pari a ben 10 medaglie d’oro, 14 argenti e 15 bronzi da far invidia a chiunque! Un bottino così ricco non si vedeva da anni, ed è destinato già a lasciare il segno qualificandosi come una delle edizioni più vittoriose dello sport paralimpico azzurro. Tralasciando la modestia, vi siete mai chiesti come sono nate le Paralimpiadi e come hanno fatto a tramutarsi in un evento così importante?

Era il lontano 1948 nel pieno del secondo dopoguerra e, come tutti sanno, i processi di ricostruzione non sono stati così scontati, l’Europa era in subbuglio e ridotta a poco più che un cumulo di macerie, dovunque ci si aggirava si poteva ammirare sofferenza, distruzione e massacri. Le perdite umane si rivelavano insostenibili e fuori da qualsivoglia aspettativa, senza contare il fatto che bisognava occuparsi dei numerosi feriti. E’ proprio in questo scenario che il medico Ludwig Guttmann si trovò ad operare; egli infatti aveva capito quanto fosse importante lo sport nella fase riabilitativa dei propri pazienti, tanto da aiutarli a ritrovare la propria autostima e a  costituire così un presupposto fondamentale per il loro reinserimento nella vita sociale. Il passo da allora fu poi breve: nell’anno delle Olimpiadi di Londra venne organizzata la prima competizione sportiva tra disabili nota con il nome di “Giochi di Stoke Mandeville”, destinate poi a diventare le future Paralimpiadi.

Che dire, da lì in poi di acqua sotto i ponti ne è passata eccome! Ma le cose però non sono sempre state così semplici. Basta partire dal fatto che, nonostante i Giochi Paralimpici risultano ormai una realtà solida e consolidata, raccogliendo il meglio dello sport mondiale senza aver nulla da temere rispetto alle colleghe a cinque cerchi, c’è ancora chi le considera di serie “B”. Effettivamente nascono come “parallele” rispetto alle Olimpiadi, ma questo termine di paragone va gestito con cautela. E’ inutile fingersi moralisti o scandalizzarsi quando si parla di differenze. E’ importante far capire al grande pubblico che le Paralimpiadi erano e restano una competizione fatta di gare, prestazioni e punteggi e che, dietro all’avvicinarsi degli atleti all’appuntamento olimpico, c’è lo stesso tipo di lavoro fatto di preparazione e duro allenamento. La cosa più sbagliata che si possa fare è quella di descriverle come un raduno dilettantistico di persone con disabilità dedite ad attività sportive. E’ vero sì che i protagonisti centrali dei giochi sono gli atleti con le loro storie, ma è altrettanto vero che le vicende umane, in particolare quelle legate all’handicap, non possono finire per inghiottire gli sportivi stessi. Bisogna riuscire a raccontare una gara, una qualificazione, una finale, senza porre l’accento esclusivamente sulle caratteristiche fisiche dei partecipanti, senza limitarsi al pietismo che investe le loro vicende personali in quanto procurerebbero indubbiamente qualche clic in più e maggiore visibilità, ma annebbierebbero il vero intento dell’evento che è quello di fare sport, di mettere in luce abilità e potenzialità degli atleti nonché il loro spirito di competitività.

Erminia Lorito