Intervista a Nicoletta Tinti: evoluzione di una Farfalla

Nicoletta Tinti: classe 1979, ci racconta oggi la storia della sua “evoluzione”. Ex farfalla della Nazionale Italiana, ha deciso di accettare la nostra proposta a parlarci della sua vita, di come si è accostata alla ginnastica, e di come la sua nuova condizione l’abbia in realtà resa capace di reinventarsi senza rinunciare alla sua passione per la danza e il movimento.

Ma lasciamo che sia proprio lei a dirvi di più e a raccontarvi la sua bellissima favola.

Quando è scattata dentro di te la scintilla dell’amore per la ginnastica?

 Mi sono avvicinata alla ginnastica ritmica all’età di nove anni per puro caso. Ricordo che da subito non perdevo neppure un’allenamento, mi è sempre piaciuto mettermi alla prova ed imparare. Innamorarmi della ginnastica è stato naturale, facile, dividevo il mio tempo libero tra lezioni di violino e allenamenti in palestra, fintanto che è arrivato il momento di scegliere e la ginnastica ha vinto. La palestra mi ha letteralmente vista crescere e mi ha cresciuta. Avevo 14 anni quando un giorno la mia allenatrice è arrivata in palestra sventolando un telegramma, anzi “Il Telegramma”, nel quale mi comunicavano la convocazione in nazionale. Avevo lavorato tanto per quell’obiettivo, senza sapere se l’avrei mai raggiunto, ma in quel momento mi era difficilissimo crederci. Così da li a pochi giorni sono partita, non consapevole del fatto che mi stavo lasciando alle spalle una vita da adolescente “normale” per catapultarmi in una nuova realtà per niente semplice. Il centro federale, in quegli anni si trovava a Legnano, in provincia di Milano, in brevissimo tempo ho dovuto imparare ad essere indipendente, a vivere lontano dai miei genitori e da tutte le comodità del caso.
Ora che non pratichi più questa disciplina, l’amore per questa è diminuito oppure è rimasto immutato ma magari si è invece instaurato uno specie di rapporto conflittuale?
Direi che è rimasto tale e quale. Ho lasciato la ginnastica per scelta, ho avuto la fortuna di raggiungere un grande obiettivo, un sogno, far parte della squadra nazionale di ginnastica ritmica, fino a partecipare alle Olimpiadi. La ginnastica mi ha accompagnata in un periodo della vita durante il quale mi ha regalato tante emozioni e al tempo stesso mi ha cresciuta, insegnandomi le regole della vita, e così al momento giusto è stato facile dedicarmi ad altro.
Essere una “Farfalla” è di sicuro un onore ed una responsabilità: come hai vissuto quel periodo della tua vita?

E’ stato un periodo ricco, ricco di emozioni ma anche ricco di rinunce e sacrifici. Ricordo i momenti di sconforto, in cui ero vicina ad arrendermi, ma ricordo anche i momenti felici, in cui mi sentivo orgogliosa di me stessa e soddisfatta di quello che stavo vivendo. La ginnastica è uno sport che richiede tantissima applicazione e dedizione, si ripetono gli stessi gesti infinite volte, cercando quella perfezione che non arriverà mai. 

In una precedente intervista hai dichiarato che nel primo periodo di convalescenza ti capitava di piangere perché vedevi gli altri farlo: che ruolo hanno giocato le persone vicino a te nel processo di “riabilitazione”?

Come in tutti i grandi cambiamenti è normale attraversare un periodo di completo smarrimento e confusione, in cui non si sa chi si è e soprattutto chi saremo domani. Sapevo chi ero fino al giorno prima, e in maniera istintiva, per un bel po’ di tempo, ho continuato a guardarmi dentro e non allo specchio. Questo mi ha aiutata ad abituarmi pian piano alla mia nuova condizione, senza disperarmi. In quel periodo sono passate così tante persone accanto a me, ognuna a suo modo. Alcune mi hanno camminato accanto lasciando che in alcuni momenti mi potessi appoggiare, altre mi hanno insegnato a convivere con la mia nuova condizione, altre si sono allontanate per sempre non riuscendo a vedere “oltre”.

Cosa vuol dire dover ricostruire nuovi equilibri totalmente diversi da quelli che caratterizzavano la tua vita prima dell’infortunio?

Il grande cambiamento, nel mio caso, è arrivato in un momento della vita in cui la costruzione del mio muro era a buon punto: mi mancava pochissimo alla laurea in ingegneria civile e il progetto di famiglia era vicino. Improvvisamente è tutto crollato, e così dopo l’infortunio ho dovuto riprendere in mano mattone dopo mattone per poter ricostruire. Fortunatamente le fondamenta erano solide e così in poco tempo ho deciso di rimettermi in gioco. All’inizio aggrappandomi ad un obiettivo importante, concreto, che per cause di forza maggiore avevo sospeso: l’università. Una volta laureata e dopo aver trovato lavoro, mi sono dedicata a riscoprire la nuova me stessa, confrontandomi con svariate attività ed esperienze, così da individuare quelle che mi calzassero meglio.
Cosa consigli a coloro che vivono una situazione simile alla tua?
Credo che prima di tutto sia importante prendere coscienza e consapevolezza di quella che è la propria nuova condizione, che non significa accettare. Faccio molta fatica solo a pensare come si possa accettare un cambiamento di questo tipo. A questo punto diventa importante porsi degli obiettivi, direi anche “ambiziosi”, e credere nelle proprie potenzialità, senza soffermarsi e cercare sempre scusanti intorno al proprio limite. Vivere una vita attiva, propositiva e in condivisione con gli altri porta sicuramente delle opportunità. Per esempio lo sport, o una qualsiasi passione, come ho potuto provare sulla mia pelle, è uno strumento importante a cui sarebbe importante non rinunciare.
Parlaci di “InOltre”, il progetto che ti vede impegnata attualmente. 
“InOltre” è una gran fortuna. “InOltre” è un progetto che è nato pochi mesi fa da un’energia particolare, da un’amicizia. Ho conosciuto Silvia solo due anni fa durante un festival estivo di danza, durante il quale danzava nella compagnia e io mi esibivo per la prima volta da “seduta” con il coreografo grazie al quale sono tornata a danzare, Keith Ferrone. Silvia ha avuto l’idea di far vivere una nuova creatura, una struttura in ferro, “Grim”, che mi permette di stare in posizione eretta e sfruttare al massimo il movimento residuo della parte superiore, ma che soprattutto mi ha riportata completamente alla danza. Dopo il primo esperimento con Grim, l’emozione è stata così grande , la libertà così vicina che abbiamo deciso di proseguire. Abbiamo così coinvolto nel progetto altri artisti, oggi carissimi amici, nello specifico 5 musicisti e due ballerini. E’ nato così il nostro primo spettacolo “AsSENZA”, di cui Silvia è la mente, dove si parla proprio di mancanze e di quale può essere la strada per riuscire a colmarle o per lo meno alleviarle. Spero tanto che questo sia solo l’inizio di una bella avventura.
Dalla ginnastica alla danza: universi paralleli che possono incontrarsi?
Ho avuto la fortuna di avvicinarmi alla danza durante gli studi universitari e lavorare nella compagnia “Florence dance company” per alcuni anni. La danza è una forma d’arte, una forma d’espressione in cui mi sono sempre sentita a mio agio e che mi permette di comunicare con chi ho di fronte e accanto in una maniera unica e difficile da spiegare. Prima di approdare nuovamente alla danza, mi sono dedicata allo sport da seduta, tennis e sci, sport che mi hanno dato tanto, mi hanno aiutata a riconoscermi, a ritrovare la mia indipendenza, a ritrovare il coraggio di mettermi alla prova, a condividere e comunicare con gli altri e soprattutto mi hanno regalato tanti momenti felici e spensierati.
Credi che il tuo ritorno sulla scena, anche se diversa da quella della palestra, possa considerarsi una rinascita?
Più che una rinascita la chiamerei un’evoluzione. La danza di oggi è un qualcosa che va oltre il gesto tecnico e che quindi mi permette di esprimere tutto quello che ho dentro, di godere al massimo della magia di quel momento, che nasce dall’unione di tre cose: movimento, musica e energia condivisa con i miei compagni e il pubblico.
Spesso la disabilità viene associata all’idea di limite: come smentiresti questa frase?
Sicuramente in ogni disabilità ci sono dei limiti, non potrei dire il contrario. Questi sono molto relativi all’ambiente che ci circonda e a quello che riusciamo noi stessi a visualizzare. Sta a noi e alle persone che ci circondano portare al minimo il limite dandogli meno importanza possibile e trovare una strategia per aggirarlo.
Nausicaa Borsetti