Merlene Ottey e un oro chiamato desiderio

Una stella filante. Per quasi un ventennio, la sua fettuccia gialla diventata poi verde e blu fluorescente si è srotolata velocissima sulle piste di tutto il mondo striando di questi colori le corsie.

Nei dettagli, un’ininterrotta serie di vittorie a tutte le latitudini con tanto di record e primati vari migliorati, eguagliati o sfiorati, questa figlia del vento, versione al femminile del divino Carl Lewis, ha accumulato in tutto questo periodo un palmares totale impressionante: ben sei partecipazioni olimpiche e altrettante mondiali nelle quali ha raccolto un ingente bottino di medaglie, nove sotto il segno di Olimpia e quattordici iridate. Paradossalmente in tutto quel clangore non risuona purtroppo il tintinnio dell’oro zecchino: quello dell’estasi olimpica. Questa mancanza rese Merlene Ottey sfortunata e romantica eroina della pista, vittima di un crudele sortilegio così incastrata da un triste gioco del destino che le impedì il trionfo completo per un’infinitesimale questione di quattro millesimi di secondo nella finale dei 100 metri piani di Atlanta Olimpiadi 1996, sempre per mano della sua filiforme bestia nera: l’americana Gail Devers che l’aveva già beffata, sempre sulla stessa distanza, per tre millesimi ai Mondiali di Stoccarda del 1993.

Una stella cadente. Non sfreccia più come una volta ma risplende vivido l’argento della sua scia sul cielo dell’atletica mondiale. Prima di lasciarsi inghiottire dal suo buco nero, la flessuosa caraibica si è divertita fino al suo canto del cigno avvenuto a cinquantadue anni suonati: ancora bella, elegante nella corsa e dignitosamente competitiva ai Campionati Europei di Helsinki 2012 disputati nella squadra slovena di staffetta veloce. Trainava con la sua consumata esperienza, come una locomotiva sul binario il prossimo convoglio, una delle tre compagne di staffetta per scambiare col sincronismo giusto il bastoncino testimone. Come se nulla fosse, non finiva di stupire nelle sue dichiarazioni di allora: ”Correrò finché il mio corpo lo permetterà, in fondo non sono tanto diversa dalla ragazza che incominciò nel 1980 a Mosca la sua avventura ad alti livelli, sono solo meno veloce”. Naturalizzata fin dal 2002 tra le file di questa nascente nazione balcanica, ha disputato ancora un’Olimpiade e due Campionati del mondo, esemplare professionista che al contempo però non ha mai dimenticato le sue origini.

Nata nel 1960 a Cold Spring sotto l’ardente sole della Giamaica: quello che rovente tosta i caratteri dei suoi abitanti, rende rilucenti le loro nere pelli e mette il fuoco dentro le fibre muscolari dei suoi velocisti, ha dovuto poi scegliere il sole più pallido della Slovenia, affidandosi anche alla compiacenza di una madre natura più generosa che mai, pur di continuare la sua lunga storia d’amore con lo sport. Un’esaltante avventura che ebbe inizio al ritmo del calipso nella sua amata isola, dove frotte di uomini e donne con lo sprint nel sangue incominciavano a capire che i loro sogni non morivano più all’alba: era dunque possibile spezzare in modo più continuo l’arrogante predominio dei possenti velocisti perlopiù neri targati stelle e strisce.

Dopo il formidabile Donald Quarrie, veterano di cinque edizioni dei Giochi, che in campo maschile a Montreal 1976, portò il vessillo giallo nero e verde sul più alto pennone olimpico, fu lei statuaria pantera nera dei Caraibi la prima donna a mettere seriamente e continuamente in discussione questa leadership, con prestazioni e riscontri di un certo livello.

Il tempo cambia molto, ma non tutto: se oggi una nutrita schiera di velocisti giamaicani il cui capostipite Usain Bolt ha fatto definitivamente saltare il banco nello sprint a dispetto dei potenti, insidiosi e mai domi despoti di sempre rappresentando il nuovo che avanza, non bisogna dimenticare che alla base del movimento, oltre il talento ormai disciplinato da una corretta programmazione, rimane l’esempio della passione.

Quella che Merlene, terminata così la continua ricerca di se stessa e dei suoi limiti attraverso il lungo percorso di una vita e di una sfida perenne contro il tempo naturale e quello sportivo scandito dal cronometro, continua a rappresentare come una stella cometa che indica ai suoi eredi la strada giusta per competere.

Una leggenda come lei, che ha iscritto il suo nome tra le atlete più longeve di ogni tempo e si porta appresso un glorioso fardello di trentanove medaglie internazionali, lasciando sul terreno le orme ben tracciate di 10,74 sui 100 m e 21,64 sui 200 m, rispettivamente sesto e terzo tempo di sempre al mondo, non invecchierà mai. Di tanto in tanto solo la sua figurina degna di essere appiccicata per l’eternità sull’album dei ricordi avrà bisogno di qualche ritocco.

D’altronde, correre per un velocista è sempre un brivido caldo che nello spazio di pochi respiri esprime totalmente la libertà del gesto più naturale e spontaneo di un essere umano.

Vincenzo Filippo Bumbica