Una critica ad Ars et Lux attraverso le fantastiche intuizioni artistiche di Luca Cantore D’Amore

Oggi vogliamo raccontarvi insieme a Luca Cantore D’Amore, quella che sarà la prossima mostra promossa da Art Space: Ars et Lux. La mostra sarà inaugurata in via Tortona il 26 ottobre. Questa godrà tra le tante partecipazioni artistiche, anche della presenza in qualità di critico della mostra, di Luca Cantore D’Amore, classe 1991. Laureato in Design degli Interni presso il Politecnico di Milano e successivamente in Interior Design. Si muove nell’ambito dell’arte e dell’architettura, della letteratura e della filosofia con inclinazione ai temi dell’attualità, della bellezza e del paesaggio. Un amante del bello, o delle arti che dir si voglia. Un giovane con una consapevolezza artistica rara. Concilia le sue passioni e le promuove grazie al suo impegno come opinionista per diverse riviste e non solo, perché il Cantore D’Amore si diletta anche come art director (sebbene Ars et Lux sia diretta da Eva Amos); ha presentato numerose mostre d’arte ed è da tempo un energetico relatore in ambiti accademici espositivi e di eventi tematici o mediatici. Cantore D’Amore inoltre partecipa e vince, nel corso degli studi, alcuni WorkShop e contest internazionali tra i quali emerge la curatela della Biennale Contest a Venezia per conto del Politecnico di Milano nel 2015. Dopo questa breve introduzione è giusto lasciare che sia Cantore D’Amore ad introdurci dentro la mostra:

«Movimento, volume, divertimento, forma, sostanza, eccitazione e, talvolta, persino sensualità… Questa è un’enorme altra pletora di circostanze e definizioni che si annidano nel grembo della parola “luce”. Attraverso essa ci illudiamo di capire il mondo e tentiamo, grazie alle rappresentazione che di esso ne proponiamo, di riprodurlo più o meno fedelmente e, soprattutto, più o meno volutamente. La luce è allo stesso tempo verità e finzione; nondimeno realtà e inganno. E la paradossale e contraddittoria modalità con cui essa può presentarsi ai nostri volubili occhi ed essere adoperata, incredibilmente, può anche essere oggetto di una scelta volontaria e non necessariamente costretta. La natura la impone, la luce, l’arte può invece veicolarla e dosarla. “Possiamo solo descrivere e dire; così è la vita umana” ci dice il filosofo e, allo stesso tempo, ingegnere, logico e matematico Ludwing Wittgenstein in riferimento alla assoluta impossibilità di intendere fino in fondo le basi dell’esistenza; creando un retroattivo ponte ideologico con il “senso d’insensatezza” della vita raggiunto e professato da Tolstoj mezzo secolo prima ne “La Confessione” come se il senso, oltre che nascondersi nell’insensatezza stessa, si collochi nel brivido di eterno riproporsi, vano e spasmodico della sua ricerca sconclusionata. Fare luce sul mondo, si rivela così una missione inevitabile se innanzitutto non si faccia luce su se stessi, in primis. Ma allora, in virtù di queste verità scientificamente incontrovertibili per cui il vero significato del nostro stare al mondo risulta, in ultima analisi, insignificanza e vacuità cosa può consolare gli animi dannati di ognuno se non la bellezza e i danzanti sentimentalismi da essa generati? Nulla, forse. Anzi: null’altro. Ciò che l’arte ci consente, rimpinguando la tenebrosa vuotezza della vita, è la possibilità di fare luce. Ovvero di cangiare l’asse di rotazione attenzionale da una soluzione che si sposti dalla luce della ragione, alla luce della passione. Una certa partecipazione morbosa a tutte le sfumature meno tragiche dell’esistenza che trova la sua sublimazione in quegli ardori, d’evocazione amorosa vagamente dantesca, che smuovono i nostri tumulti e ci consentono la sopravvivenza che è possibile solo attraverso il fare luce sul mondo attraverso la rappresentazione artistica di esso che scaturisce significato e morale. “Che move il sole e l’altre stelle”, conclude il Sommo Poeta. Per cui se ci risulta impossibile conferire un senso ai nostri agiti attraverso la ragione, questa, soppiantata dalla passione legittima e autorizza ogni movimento. Da quelli dell’anima a quelli del corpo. Da quelli violenti del fisico a quelli pieni di grazia dell’emotività. Nel ‘600, Pope, ci ricorda di come, l’uomo, possa essere letteralmente “padrone del tutto e preda di ogni cosa”, perché, con discendenza inevitabilmente shakespeariana, non si può non riconoscere di come la vita non sia altro che “un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggiane e si agita sul palcoscenico del mondo, per la sua ora. E poi, non se ne parla più. Una favola narrata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”. A meno che, non si faccia luce…

L’aspetto meraviglioso della luce, dunque, è la totale libertà espressiva che consente, data la vastità della potenza che emana. Questo avviene, non solo concretamente, ma soprattutto concettualmente. Ed ecco che essa, attraverso il tema, diventa concetto e, di conseguenza, espressione artistica imprevista e variegata. Così, la stessa parola, si materializza con l’elaborato, con il gesto artistico personale senza limiti e con creatività assoluta, in quanto assolutamente possibile. E dunque lecito, oltre che legittimo. L’enormità del tema si dimostra con la varietà delle soluzioni. Infatti si accostano con assoluta soluzione di continuità, nonostante le differenze realizzative, i meravigliosi, tristi e felici personaggi di Alexandre Sverzut, memorabili esempi di primitività assoluta (così come non a caso risulta primitivo il tema), nella loro serena ma non disperata solitudine; con l’allegria fotografica assolutamente dinamica ed espressiva della napoletana Anna Santinelli che intende dare luce ai volumi e volume alla luce attraverso questi corpi volteggianti e sinceri, oscillanti tra corpo e involucro. Una riflessione su contenuto e contenitore. La leggerezza che contraddistingue le movenze dei suoi soggetti si ricollega tutt’altro che casualmente alla leggerezza soffice dello scorcio lucente realizzato da Oksana Bykovska, designer e artista che con un uso delicato e non invadente della luce propone una veduta che assomiglia alla “lontananza” in questa immagine che profuma di ricordo sereno, luminoso, con un salto tenero e sbiadito dal soggetto all’oggetto. O, forse, all’oggetto come soggetto. E quando si parla di ricordo sereno, l’elaborato da menzionare è certamente quello di Rosario D’Ignoti Parenti che della sua Sicilia, il ricordo, lo porta con sé e lo esprime per gli altri, in questa sorta di riscatto della memoria che propone e sottopone il perimetro di un luogo che trabocca di storia e cultura a cui spesso si è sottoposta, ingiustamente e deliberatamente, indifferenza e noncuranza. Con allegra malinconia ci induce ad una riflessione su un luogo icona d’Italia (tanto che lo si riconosce immediatamente dalla sagoma) e lo caratterizza di cavi e luci nell’intento possibile e nobile di riportarla, giustamente alla luce. Quando alla riflessione sullo scorcio, sul luogo, si abbina quella dell’irripetibilità dell’attimo, Alla Lega, esibisce il “momento eterno” di una luce tiepida che sfiora il freddo innevato del suolo. Riuscendo però ad ottenere un risultato, inspiegabilmente, caldo. Perché caldo è l’intento della memoria quando con tollerabile nostalgia lei e noi ricordiamo degli scorci indimenticabili come quello che, con calore e colore, ci mostra. E del fatto che l’arte sia espressione, ce ne si accorge subito guardando le tele di Eva Amos che riesce, con paradosso, a dipingere la gioia dell’arte attraverso gesti violenti di tratti e figure e colori invadenti e di grande personalità. Quando troppe personalità ingombranti si accostano spesso il risultato è caotico, ma lei riesce ad accostarli, i colori, con una sapienza talmente armoniosa che convivono gioiosi mostrando i caratteri dei soggetti, anch’essi differenti ma conciliabili.

redazione