L’isola dei cani: lo sguardo puro ed emotivo dei cani di Wes Anderson

Orso d’argento al Festival di Berlino, L’isola dei Cani è il nuovo e attesissimo film di Wes Anderson, dall’1 maggio nelle sale.  Si tratta di una pellicola d’animazione, che anche stavolta, come nel 2010 con Fantastic Mr. Fox, è girata da Anderson con la tecnica stop motion e ha per protagonisti degli animali parlanti.

Ambientato in Giappone, il film racconta la surreale storia di un governo ostile ai cani, a causa di un vero e proprio odio che la famiglia Kobayashi al potere ha maturato nel corso di generazioni verso il genere canino. Il misterioso quanto improvviso insorgere di terribili malattie che contagiano a catena i migliori amici dell’uomo, diventa un pretesto più che valido per far deportare tutti i cani sulla vicina isola-discarica, in cui vengono ammassati i rifiuti.  

E’ così che i cani d’appartamento sono costretti a diventare dei randagi, formando bande per garantirsi la sopravvivenza nell’enorme discarica. L’arrivo improvviso di un bambino, che atterra sull’isola con un aereo per ritrovare il suo amato cane Spots, sconvolgerà la routine degli “abitanti” del luogo, in particolar modo quella di Chief e della sua comitiva, che cercheranno di aiutare l’umano a ritrovare il suo fedele amico a quattro zampe. Introdotto e scandito dal suono dei tamburi, come nel teatro kabuki, una delle forme tipiche del teatro giapponese, L’isola dei cani è un film diviso in capitoli, come molti del regista.  

Una pellicola che contiene numerosi riferimenti alla cultura giapponese: dalla musica, alla cucina (con scena dettagliata di preparazione del sushi), dalla letteratura (poesia haiku) alla tecnologia (cani robot, medicina ultra avanzata), fino alla pittura giapponese.  Amante della simmetria nella composizione dell’immagine ed estimatore del cinema orientale, Wes Anderson trova perfettamente confacenti al suo stile le ambientazioni giapponesi, che omaggia rendendole parte integrante della sua estetica cinematografica.

Oltre ad essere ambientato sull’isola di Megasaki il nuovo film di Anderson si svolge in gran parte sull’isola dei Cani, un’immensa discarica a cielo aperto in cui vengono raccolti i rifiuti, ma anche gli animali, che sono considerati alla stregua di spazzatura indesiderata. Lo stesso bambino pilota in fondo è uno scarto della società, un orfano isolato dal mondo che si trova più a suo agio tra i cani e i rifiuti, piuttosto che sull’isola degli uomini” con il ricco e potente zio (il presidente Kobayashi).

Un altro aspetto fondamentale del film è quello del linguaggio: nella divertente ed eccentrica distopia di Anderson, infatti, la lingua principale è quella dei cani: sono le altre lingue, il giapponese e l’inglese a dover essere tradotte per essere comprese dagli animali. Durante tutto il film assistiamo a “problemi” linguistici e necessità di traduzione. Tra le righe si legge il tema dell’incomunicabilità che spesso può essere riscontrato nei film del regista: i suoi personaggi tendono a parlare tanto, elaborando complesse strategie che confondono chi le ascolta più che andare dritte al punto, (come gli amici di Chief) oppure al contrario i suoi protagonisti tendono a non parlare affatto (Chief, Il piccolo pilota) e ad agire senza pensare.  E’ proprio sulla comunicazione non verbale che L’isola dei cani fa leva.

Alle false parole e ai comunicati stampa dittatoriali del presidente Kobayashi e dei suoi seguaci si oppongono le sensazioni semplici ma sincere dei cani dell’isola, tanto che l’odio del potere verso questi animali sembra quasi connesso con la trasparenza delle loro emozioni. Se gli occhi degli umani sono piccoli e poco espressivi ( tranne gli occhi gialli del piccolo pilota), quelli dei cani sono immensi e brillano di colori puri e sgargianti che sottolineano la spontaneità dei loro sentimenti. 

Il loro sguardo è quasi lo specchio emozionale di ciò che manca ai loro padroni. Il piccolo pilota rappresenta un’eccezione: è l’unico essere umano che ritorna sull’isola per recuperare il suo cane e con esso il legame affettivo che aveva con lui. E’ l’unico quindi a credere alle emozioni, piuttosto che nel linguaggio: per gran parte del film, infatti, comunicherà a gesti con i cani, che ovviamente non comprendono la sua lingua umana. La spontaneità e la purezza dei cani sono utilizzate da Anderson come metafora. Il suo film è in fondo una fiaba sui generis, in cui il regista vuole dire che è meglio vivere emozioni naturali e autentiche in mezzo ai rifiuti, sull’isola dei cani; piuttosto che nella finzione e nella menzogna, nell’isola iper-tecnologica degli uomini. Come nel Piccolo Principe di Saint Exupery c’è un bambino, qui un piccolo Pilota, che è simbolo della purezza. In entrambi i casi i protagonisti riscoprono le emozioni umane.

Il Piccolo principe le conosce attraverso i suoi viaggi; il piccolo Pilota le ritrova negli occhi trasparenti e languidi dei cani, in mezzo ai rifiuti, piuttosto che tra la gente. Spesso nel film di Anderson si assiste a scene in cui gli esseri umani piangono nel vedere i cani piangere. Un’emotività naturale e contagiosa (al contrario delle malattie canine facilmente curabili) che, grazie alla sua regia e all’accuratissima fotografia, Wes Anderson rende anche poetica. Stilisticamente il film è davvero pregevole. Le soluzioni visive sono tutt’altro che banali: sperimentali e creative trovano nella stop motion un mezzo efficacissimo per sovvertire i canoni tradizionali.

E’ così che lo sguardo sognatore di Anderson trasforma un’isola di rifiuti in un parco divertimenti, un branco di randagi in una nuova civiltà, paradossalmente più autentica di quella civilizzata. 

Non mancano poi citazioni cinematografiche, tra cui anche una scena pseudo-western tra i cani, che rimanda un po’ a Sergio Leone (e quindi anche ad Akira Kurosawa, dato che Per un pugno di dollari di Leone è il rifacimento del film giapponese la Sfida del Samurai) e scene un po’ noir nei dialoghi tra Chief e Nutmeg.  Tipica del regista inoltre è la sottile ironia, che gioca spesso sui paradossi, sul rapido passaggio dalla stasi al movimento, su un certo tocco crudo e macabro, sul repentino cambio di prospettiva, sul gusto per la rappresentazione un po’ naif di vicende e processi particolarmente complicati che invece si risolvono in pochi attimi sulla scena. E’ la stralunata logica di Anderson, del suo mondo e dei suoi stravaganti personaggi: uno stile unico che rende i suoi film inconfondibili. 

L’intreccio intricato e se vogliamo corale de L’isola dei cani, a scatola cinese (o forse dovremmo dire “giapponese” data l’ambientazione) rievoca molto quello di Gran Budapest Hotel, con cui si pone in grande continuità. Vi si ritrova lo stesso brio creativo, lo stesso gusto per la complicazione degli eventi, qui però maggiormente indirizzato verso un messaggio finale che è possibile cogliere tra le righe.Allo stesso tempo viene in mente senz’altro la stop motion di Fantastic Mr Fox, anche se L’Isola dei Cani appare complessivamente più incisivo, per ambientazione, regia e per i temi trattati: un cartone animato di elevata qualità e creatività.

Francesco Bellia