L’Ambulanza Nera: quando i soccorsi non portano aiuto ma la morte

Un veicolo del tutto e per tutto simile a un’ambulanza dalla carrozzeria nera si aggirerebbe per le strade d’Italia alla ricerca di giovani piccoli da rapire.

Nei tempi andati era il babau, oscuro abitatore delle stanze chiuse e delle cantine, a popolare gli incubi dei bambini. I contadini dicevano ai loro figli: «Non andare là, o il babau ti afferrerà e ti porterà via». I più piccoli, spaventati da quella misteriosa figura, che nessuno era in grado di rappresentare con certezza, venivano dissuasi dall’infilarsi nei granai e nei posti più nascosti: luoghi interni alla casa che, di solito, erano utilizzati per la conservazione del cibo e venivano così anche difesi dalle intrusioni e dai pericoli di furto.

Il babau, figura un po’ animalesca (lo stesso nome “babau” ha una sottile assonanza con il verso del cane) e un po’ umana (spesso viene anche descritto come l’uomo nero che vive nell’armadio e non aspetta altro che i bambini restino da soli al buio per acchiapparli), presto sublima nella minaccia ben più reale rappresentata dalle comunità di zingari che, girando di città in città con i loro carri e i loro luna park, sarebbero rei di rapire i bambini degli altri per portarli con sé in giro per il mondo.

Nei primi anni ’90, invece, si diffonde nel sud Italia una voce secondo la quale esisterebbe un’ambulanza nera che farebbe scomparire i bambini rapendoli davanti alle scuole, e che essa sarebbe legata a un bambino senza occhi ritrovato morto vicino al lago di Penne.

Si scatena una sorta di follia collettiva: i bambini rifiutano di andare a scuola, i genitori vengono invitati ad accompagnare i figli fino alle fermate e ad attendere che i pulmini siano arrivati e ripartiti prima di andarsene, i centralini delle forze dell’ordine sono presi d’assalto dalle telefonate di madri terrorizzate da una fantomatica organizzazione che porterebbe via i bambini per asportarne gli organi.

Gli operatori del soccorso vengono guardati per molto tempo con sospetto.

Secondo i meglio informati, sull’ambulanza nera viaggerebbero due infermieri insieme a due carabinieri con false uniformi che inviterebbero la vittima prescelta a seguirli con una scusa, per esempio accompagnare il bambino in ospedale perché i genitori sono ricoverati.

Tali fabulazioni non trovano riscontro nella realtà ma, solo col tempo, il terrore della comunità per il misterioso pericolo riesce a placarsi.
Eppure le mamme non smettono mai di raccomandare ai loro figli: “Non parlare con gli sconosciuti”.

Nei paesi dell’ex blocco sovietico girava tra gli anni ’60 e ’70 una leggenda metropolitana simile a questa, che vedeva però protagonista una lussuosa Volga di colore nero.

“Il piccolo indossava un pigiama di cotone azzurro, sporco di sangue sul fianco destro. La dottoressa cercò di capire da dove provenisse quel versamento. Sembrava una ferita localizzata nella fascia lombare.
Sollevò la maglietta con cautela per controllare e trasalì. C’era un bendaggio imbevuto di sangue con un tubicino da drenaggio che spuntava al centro. A occhio e croce, sembrava la medicazione post-operatoria di un intervento chirurgico al rene. Alessandra provò un forte senso di irrealtà. Per quanto ne sapeva lei non c’erano ospedali lì vicino. Forse una clinica privata.
Avevano spalmato il petto del bambino di gelatina grigia, poi gli avevano applicato gli elettrodi a ventosa dell’elettrocardiografo. Alessandra controllò il monitor, il battito del cuore adesso era regolare. La pressione però stava calando in fretta, era già sui valori di novanta-sessanta, forse un effetto collaterale dell’antinfiammatorio che gli avevano somministrato. Sotto il bendaggio, la presenza di diversi punti di sutura ancora arrossati aveva confermato l’ipotesi iniziale: il piccolo era stato sottoposto a un intervento chirurgico al rene. Da non più di una settimana, pensò la dottoressa.”
Brano tratto da Resurrectum, di Gianfranco Nerozzi (Dario Flaccovio Editore, 2005).

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