La ruota delle meraviglie: Woody Allen e il giogo colorato delle illusioni

Nel suo ultimo film La ruota delle meraviglie, l’instancabile Woody Allen, in continuità col precedente Cafè Society, insiste su note malinconiche, accentuando in questa pellicola l’attenzione per la fotografia, la luce e l’ambientazione scenica, oltre alla costante cura dei personaggi e dei dialoghi.

Il dramma viene composto dal regista sfruttando “un palco” a di poco originale: una giostra della colorata e affollata Coney Island, a sud di Brooklyn, famosa per i suoi chiassosi e variopinti lunapark.

Humpty (Jim Belushi), rozzo giostraio, facilmente incline all’alcol, si ritrova a doversi confrontare con la comparsa improvvisa di sua figlia Carolina (Juno Temple), con la quale aveva spezzato ogni legame dopo che questa aveva deciso di sposare un gangster. Tornata da lui per essere nascosta dal marito che la cerca per ucciderla, dato che la ragazza ha rivelato molti segreti alla polizia, Carolina viene presto perdonata dal padre e si inserisce nel già tormentato nucleo familiare dell’uomo, costituito dalla nuova compagna Ginny (Kate Winslet), un ex attrice che dopo il brusco fallimento di una precedente relazione, ha trovato in Humpty una stampella alla quale appoggiarsi e da cui ricominciare, senza per questo riuscire veramente ad amarlo; ed il figlio di quest’ultima, un bambino fortemente trascurato da tutti, che preferisce rifugiarsi al cinema e che per attirare l’attenzione provoca spesso incendi.In questo quadro già abbastanza complicato si inserisce Mickey (Justin Timberlake), giovane bagnino e aspirante drammaturgo che da tempo ha una relazione con Ginny, ma comincia ad essere seriamente interessato anche alla giovane Carolina

La trama è un classico intrigo alla Woody Allen: un gioco di tradimenti, sensi di colpa, indecisioni, scelte tormentate, desideri soffocati e sopratutto rimpianti. La protagonista assoluta è senz’altro Ginny, interpretata magistralmente da Kate Winslet. Si tratta di un personaggio multisfaccetato. Una donna che porta dentro di se un senso di colpa schiacciante per essere stata lei stessa, per un suo sbaglio la causa della fine di un amore vero, per lei adesso irripetibile. Imprigionata nel ruolo di cameriera, lei che voleva essere un’attrice, è costretta a vivere dentro la rumorosa casa sopra la giostra, “il posto dove stavano i fenomeni da baraccone” (come dirà in una battuta del film), costantemente illuminata dalle cangianti e irreali luci della Ruota panoramica, che si accendono e cambiano colore insieme alle sue emozioni, per lasciare spazio, a volte, all’improvvisa oscurità del vuoto, della cruda realtà e della totale assenza di speranza. La giovane e attraente Carolina fin dalla sua entrata in scena rappresenta un perfetto alter-ego di Ginny.

Anche lei proviene da un matrimonio fallito, ha interrotto gli studi; anche lei fa la cameriera e ha i capelli chiari, che si illuminano con le luci della giostra. Humpty è disposto a tutto per farla studiare, tanto da dedicarle tutti i suoi risparmi.

La gelosia per la giovane ragazza che su tutti i fronti sembra prendere il suo posto, finiscono per rendere sempre più visibili le sbarre luminose della prigione che da tempo affligge la donna, la quale in preda alla paura di rimanervi soffocata cerca di accelerare e forzare il suo processo di fuga, senza però riuscirvi.

E’ così che le luci al neon della giostra, che talvolta appaiono anche avvolgenti e calde, piuttosto che fredde e impersonali, si rivelano essere in realtà inquietanti raggi colorati che in un crescendo espressivo diventano il simbolo di una ripetitività opprimente, solo falsamente ricca di colori, denudando in realtà il grigiore della solitudine che come una ruota torna sempre ad affliggere. E’ indubbio che dal punto di vista registico l’escamotage della ruota panoramica è incredibilmente efficace. Allen lo sfrutta per utilizzare le luci a suo piacimento come se l’intera Coney Island fosse un grande palcoscenico teatrale su cui egli può far muovere i suoi personaggi. Un’intuizione registica notevole che rende “La ruota delle meraviglie” un film dalla fotografia davvero affascinante. L’utilizzo di primi piani in controluce o di luci laterali d’ambiente immergono i personaggi in una luminosità, sì, irreale, che muta di continuo, ma accettata dallo spettatore proprio per l’onnipresenza della ruota panoramica che nella finzione filmica la produce. Da qui anche il forte discorso metacinematografico, sottolineato già dalla scena iniziale in cui Mickey, come un regista teatrale, descrive in anticipo ciò che poi accadrà sulla scena: la comparsa di Ginny in città (una sequenza tra l’altro di forte impatto visivo). Come si diceva i toni comici sono ridotti, affidati per lo più al bambino cinefilo e piromane, che reca comunque dentro di se un indiscussa carica distruttiva, sebbene provochi il riso degli spettatori. E’ con il rogo da lui appiccato che si chiude infatti la pellicola: malinconia, dramma e distruzione.

Per quanto riguarda gli attori notevole la presenza scenica di Juno Temple, che già aveva colpito per Mr Nobody, anche quello un film dalle colorazioni vivide e spiazzanti. Justin Timberlake interpreta invece il classico alter ego di Woody Allen, un poeta romantico un po’ imbroglione e in fondo superficiale che si ritrova invischiato in un complesso intrigo amoroso. Come molti personaggi di Allen parla direttamente alla macchina da presa e questo enfatizza volutamente la finzione filmica. Nonostante le luci artificiali “La ruota delle meraviglie” coinvolge molto lo spettatore, perché attraverso gli intrighi della sceneggiatura e i dialoghi sempre brillanti e ben scritti, Allen fomenta la tensione e il senso di impotenza della protagonista nei confronti della sua situazione, creando empatia col pubblico.

Molto efficaci sono i momenti di buio che a tratti si alternano alle luci al neon della giostra, i quali sembrano registrare la realtà così come realmente è: anonima e desolante. In questo gioco di oscurità e luce Ginny sembra quasi essere una creatura che appartiene alla Ruota Panoramica, che trova un’identità solo quando rischiarata dalla luce di quest’ultima, una luce intermittente e passeggera come la felicità della donna, che in quei momenti il regista fa apparire ammaliante e seduttiva, ma che si mostra sciatta e trascurata, quando invece sopraggiunge il buio, la delusione, la routine assordante della quotidianità. Un gran merito di questi effetti va dato senz’altro alla sapiente fotografia dell’italiano Vittorio Storaro, già premiato in passato con l’oscar. Come Cafè Society ,”La ruota delle meraviglie” riflette sui bivi mai imboccati, sui rimpianti e e sulle scelta non fatte che, se colte al momento giusto, avrebbero potuto spezzare il giogo dell’opprimente “ruota panoramica delle illusioni” che a volte noi stessi abbiamo contribuito a creare con le nostre scelte sbagliate o la nostra incapacità di cambiare;  ma una volta a bordo non si va più indietro. Scendere significa spesso precipitare nel vuoto. Chi è così folle da correre questo rischio? Il film non da semplici soluzioni, né improvvisati lieto fine: forse davvero l’unica alternativa che rimane è contemplare con sguardo spento la nostra ruota perduta delle meraviglie.

Per tutte queste ragioni, come il precedente film, “La ruota delle Meraviglie” è un grande ritorno di Woody Allen al cinema. Un film studiato nei minimi dettagli, di sceneggiatura, di luci e di composizione scenica, fotograficamente più elaborato di altri del regista, un ulteriore prova, se mai ce ne fosse stato bisogno, della sua inesauribile vena creativa.

Francesco Bellia