Intervista a Flavio Tranquillo: prospettive per lo sport di domani

A cura di Gianluca Pinna e Paride Rossi

Social Up ha avuto il grande onore di intervistare uno dei mostri sacri del giornalismo italiano, Flavio Tranquillo, volto noto dello sport e voce caratterizzante delle speciali ed appassionate telecronache delle partite NBA su Sky.

Flavio Tranquillo è molto apprezzato per le sue capacità di analisi dedicate al mondo dello sport ed in particolare dei modelli organizzativi e di business. Qualche settimana fa, inoltre, ha pubblicato per add Editore il suo nuovo libro “Lo sport di domani. Costruire una nuova cultura”, in cui analizza lo stato di salute di quel fantastico concetto culturale ed economico chiamato sport.

Un’analisi attenta di come lo sport ha reagito al Coronavirus e soprattutto su quali azioni potrà mettere in atto per reagire, provando magari a cancellare qualche errore e consuetudine dannosa del mondo pre-Covid.

L’emozione nel condurre l’intervista è stata tanta, ma ne è valsa sicuramente la pena. Buona lettura!

Quali sono le differenze incolmabili tra sport americano ed europeo, poiché caratteristiche e specifiche di ogni singola cultura sportiva?

Se ne facciamo una questione semplicemente di gusto delle persone, il peso di quello che i sociologi chiamano culture locali è importante. Quindi ci sta che, per tutta una serie di motivi riassumibili nel termine “tradizioni”, in una certa zona geografica piaccia il lacrosse, mentre in un’altra la pallacanestro. Questo ha sicuramente il suo valore e la sua importanza.

Però, molto spesso, si utilizza questo argomento per dire che si può o non si può utilizzare un modello organizzativo, in termini imprenditoriali o di sport di base. Questo è molto più dibattile, anzi semplicemente non è vero. Non esiste il “modello americano”, che funziona in America perché gli americani sono fatti così. Sono fatti con lo stesso DNA degli italiani, ecc.

È possibile dire che è più facile che il football americano attecchisca più negli Stati Uniti che in Italia, per questioni che potremmo chiamare “di gusto”. Diverso è dire che il modello organizzativo della NFL possa funzionare solo negli USA. Certo, se cerco di forzarlo in una realtà che genera ricavi per 10 invece di 1000, non ha senso usarlo. Ciò non toglie che vada studiato, e se del caso adattato al contesto.

Una delle caratteristiche a cui potrei essere interessato è la proattività, concetto che è diverso da quello di reattività. In Italia il Covid ha dato molti problemi a un mondo dello sport che ha cercato, invano, strumenti di contrasto alle difficoltà di cui non si era dotato in precedenza.

Viceversa, gli Stati Uniti o almeno l’NBA, hanno saputo gestire meglio la problematica perché si erano attrezzati prima con strumenti da utilizzare in caso di emergenza.

Come vede lo sport post Covid e quali sono le opportunità che potremmo sfruttare, (in cosa dovremmo innovare) magari emulando modelli esterni come l’NBA?

Ci serve identificare le cause di determinati effetti. Non è difficile vedere che, di fronte a quella che gli economisti chiamano una “causa esogena”, ci sono stati soggetti che hanno risposto in una maniera ed altri diversamente. Il crisis management dell’NBA è stato sicuramente più efficiente del crisis management di altri soggetti, americani o europei che siano.

Non è stato un singolo strumento a rendere questa risposta efficace ed efficiente, ma il tipo di disegno complessivo del sistema. Il crisis management ci insegna che più un sistema è strutturalmente forte più è in grado di resistere quando infuria la tempesta.

Prendiamo un esempio, che vale solo come tale. È evidente che c’è stato un problema di un’improvvisa sparizione di ricavi, che era stato assolutamente lecito e prudente ritenere che sarebbero stati in essere durante tutto l’esercizio. Quello che è stato fatto negli Stati Uniti, cercando di essere generico, è stato attivare degli strumenti che c’erano già (la parola “epidemia” c’era già nel contratto collettivo NBA).

Detti strumenti hanno permesso comunque, sempre dopo una negoziazione, di dividere tra lega e giocatori il rischio imprenditoriale. Non ovviamente al 50%, come ogni tanto si finge di voler fare in Europa, ma neppure 100 a 0.

Il punto è che qui questi strumenti non ci sono, e pretendere di attivarli in un momento del genere è perlomeno velleitario. Qui non c’era (e non c’è) nemmeno una regola che dicesse che cosa fare della classifica di una competizione nel caso in cui non possa finire il campionato per una causa di forza maggiore. Il problema non è guardarsi indietro, ma è semplicemente una questione di metodo.

Ancora una volta, non si tratta di “metodo americano”. I principi che lo informano sono abbastanza facili da descrivere: tendere al profitto e mantenere il vincolo di economicità. Non sono cose inventate dagli americani o possibili solo negli Stati Uniti, le insegnano anche nelle università italiane.

Qualsiasi impresa, di qualsiasi nazione, sa benissimo che, se non riesce a rispettare il vincolo di economicità e non ha una prospettiva di redditività, non è sostenibile. Questo non è un principio americano, è un principio, punto!

È ipotizzabile una Super Lega Europea? Crede che il modello potrebbe essere applicato anche ad altri sport, ad esempio nel calcio?

Spesso questa discussione viene affrontata dal versante sbagliato. Quello che conta è decidere se una lega sportiva (di calcio, basket o hockey su pista) voglia o meno perseguire la sostenibilità nel senso più pieno. Ovvero, se voglia invece andare alla ricerca di qualsiasi sostegno che possa farla sopravvivere, magari illudendosi che dire “mecenatismo” ogni dieci minuti possa far presa sulla gente.

La redditività nel medio-lungo periodo è l’unica cosa che produce utilità economica e utilità sociale, facendo quindi girare il circuito virtuoso. Questo principio è attualmente disatteso dallo sport professionistico italiano, sempre con eccezioni e sfumature. Perciò, prima di andare a vedere se è meglio la Super Lega o la Non Super Lega, devi decidere se vuoi perseguire questo obiettivo (di sostenibilità, ndr.). Altrimenti la Super Lega è destinata solo a creare una super inefficienza.

Il punto non è l’aumento dei ricavi che si genererebbe con il nuovo format, ma l’equilibrio economico e finanziario di medio-lungo periodo. Prendiamo la Champions League: è partita da 45 milioni di ricavi ed è arrivata a 3 miliardi. Ha tuttavia perso efficienza ed efficacia, nonostante l’aumento del 6000 e passa per cento dei ricavi. Il problema, quindi, non è quello, bensì capire se davvero vuoi perseguire la sostenibilità. Se mi dici che cosa stai perseguendo, poi ti posso dire se è meglio la Super Lega o la Serie A, ma se discutiamo solamente dello strumento, o del fatto che “viene meno la poesia delle provinciali”, ecc., beh questo non sembra un dialogo particolarmente razionale

Lo sport, in generale, è in continua evoluzione, ma nel mondo dell’NBA si ha l’impressione che negli ultimi anni questa evoluzione sia stata più repentina a livello di gioco. Mi viene in mente, per esempio, la quasi spasmodica ricerca del tiro da tre. Crede che nel futuro verrà meno il modello di squadra basato sulla superstar a beneficio di un modello totalmente di squadra, in cui si ha un ottimo risultato a prescindere dagli attori? Ovvero per costruire una squadra si cercherà di partire da uno stile di gioco e formare una squadra di conseguenza, o si cercherà di puntare su una o più superstar e costruirgli un team attorno?

Negli Stati Uniti, come detto, perseguono criteri di sostenibilità, economicità e ricerca del profitto, anche spasmodica. La loro idea, al momento asseverata dalla realtà, è che lo strumento principale di garanzia che l’attività sia perseguibile, si chiamicompetitive balance”. Loro credono che l’equilibrio competitivo sia il pilastro principale da cui cominciare ad edificare.

Se c’è competitive balance, deve esserci evidentemente una cosa che tu, in astratto, potresti non voler fare. Potresti anche non voler interferire con le scelte economiche e tecniche delle singole franchigie di una lega, ma se tu non lo facessi sai che il rischio sarebbe quello che determinate squadre e mercati tenderebbero nel medio-lungo periodo a vincere sempre, e quindi a far perdere di appeal il prodotto rispetto al pubblico e ai clienti, con il conseguente indebolimento della lega.

Quindi, dicono: “io non posso lasciare a NY o a Los Angeles la libertà di spendere 100 o 1000, non perché mi preoccupo della salute reale o finanziaria di chi straspende, ma perché se c’è uno che straspende mi va a pallino il competitive balance, e di conseguenza tutto il resto. Se io devo costruire una squadra ho dei vincoli forti che vengono da questa concezione. Quindi potrei anche indulgere alla discussione teorica se sia meglio tirare da tre 20/30/60 volte a partita, se sia meglio avere otto giocatori di rotazione dello stesso livello o due superstar, ecc., ma questa è una discussione solo teorica.

La discussione pratica va fatta rispetto a dove sei tu, qual è la tua situazione salariale, qual è la situazione generale e quello che puoi veramente fare, che è quasi impossibile coincida con la tua idea astratta.

Prendiamo il tiro da tre che è un classico esempio. A parte che noi facciamo un errore metodologico, poiché il tiro da tre di per sé non è il problema. Il tiro da tre va definito come un tiro che ti da un punto in più quando va dentro. Considera che un aumento dell’1% nella tua percentuale di tiro corrisponde in media (in termine di coefficiente di correlazione) a 3,5 vittorie in una stagione da 82 partite, e 3,5 non sono pochissime. Aggiungo che non esiste un allenatore o una squadra che dice “in questa azione tiriamo da tre”(a meno che non manchino 12 secondi e tu sia sotto).

Conosco degli allenatori che propongono alla difesa delle situazioni, a cui la difesa reagisce in una maniera che poi porta l’attacco a fare le sue scelte definitive. La difesa come reagisce? Continua a reagire cercando, in linea di massima, di non concedere le due cose migliori, che sono tiri da mezzo metro e tiri liberi. A questo punto tu hai solo gli altri tiri, e di questo “resto” il tiro da tre è decisamente il più remunerativo.

Se tu facessi prevalere una tua idea, per quanto eventualmente condivisibile in astratto, di superiorità del tiro da tre rispetto a quello da due, faresti male il tuo lavoro, ma anche viceversa. Verresti meno all’idea di perseguire il risultato, che per fortuna non è teorico. E poi, se il tiro da tre fosse un problema questa tendenza non si sarebbe mai verificata.

Il livello a cui le cose vengono studiate e monitorate è altissimo. Può essere che ci avviciniamo ad un punto di rottura? Può essere, è molto interessante. Può essere che, così come ci è voluto moltissimo tempo, e anche il caso, perché le squadre cominciassero ad aumentare i tiri da tre presi, magari adesso ci sia un pregiudizio favorevole. È possibile. È una questione molto dinamica, molto complessa, e che non va affrontata chiedendosi se a te, indipendentemente dal tuo livello di comprensione e fruizione del gioco, piace o non piace il tiro da tre.

Se tirare da tre fosse il male e tirare da due il bene, sarebbe già arrivato uno che smette di tirare da tre e vince sempre. Secondo me è difficile che ciò accada, però il giorno che dovesse mai succedere non avrei problemi ad ammettere che evidentemente partivo da presupposti sbagliati.

Io comunque non sto dicendo che tirare da tre è bene, sto dicendo che questa tendenza è razionale e spiegabile con alcune delle cose che ho detto (e un milione di altre).

In questo momento di crisi, probabilmente lo Stato ridurrà l’erogazione di risorse a favore dello sport in generale. Quali crede possano essere delle fonti di finanziamento alternative per il sistema? In particolare, tutto il mondo non professionistico, in che modo potrebbe sopravvivere e rendersi sostenibile finanziariamente?

È molto importante che dividiamo il mondo professionistico da quello non professionistico, e che quando diciamo mondo professionistico non intendiamo solo le squadre, le persone, le società che sono all’interno del perimetro della legge n. 91, perché non è quello il professionismo sportivo in Italia. Quello è un perimetro in cui c’è dentro 10, ma il perimetro vero è fatto di 1000. Queste sono le proporzioni. Questi 1000, sono a tutti gli effetti dipendenti di imprese private, che in quanto tali non possono e non devono essere sussidiate direttamente dallo Stato.

Il soggetto pubblico dovrebbe farsi carico dei costi dell’attività educativa-formativa e di costruzione della personalità, quella che costruisce cultura ed è perciò assimilabile al 110% a tutto quello che noi riassumiamo con il concetto di scuola e istruzione. E la scuola e l’istruzione primaria e secondaria debbono essere garantite, costituzione alla mano, dallo Stato. Questo non vieta di avere anche le scuole paritarie, anche le scuole private, anche le università da 50.000€ all’anno, però deve esserci quello che nella sanità si chiama livello elementare di assistenza. Questo tipo di sport è un bene pubblico, e in quanto tale tutti dovremmo essere messi in grado di fruirne.  Questo non succede in Italia, ed è il primo problema.

Il secondo livello dello Sport che non fa parte del professionismo è: “Io sono un dilettante, voglio fare sport per diletto”. Questa è un’attività che ha una grandissima funzione sociale, che ha un grandissimo valore per tutti, però non si può andar a scuola a vita. Quindi, se io voglio coltivare un mio interesse, hobby, passatempo o quella che io ritengo una missione (c’è gente che gioca in prima divisione a basket con la serietà con cui Lebron James prepara le partite NBA, però di giorno fa l’ingegnere, piuttosto che il manager o il ristoratore, ecc.), il ruolo dello Stato deve essere quello di garantire questa pratica a un prezzo politico.

L’esigenza di un buon funzionamento economico del sistema dilettantistico va temperata da quella funzione sociale di cui parlavamo. Devono esistere, in questo universo, un livello base e un costo politico. Poi, se uno vuole offrire una palestra molto più bella, con istruttori molto più bravi, in cui le macchine e i canestri sono più nuovi e i palloni sono gonfiati ogni giorno, e trova qualcuno che paga di più, liberissimo di farlo. costerà naturalmente di più, l’importante è che ci sia il primo livello.

Ancora più importante però è prendere le pere e metterle nel cesto delle pere, le mele nel cesto delle mele, le albicocche nel cesto delle albicocche. Non è la situazione odierna, in cui c’è un cesto con dentro una macedonia, e una parte di questi frutti purtroppo è andata a male.

È uscito da poco il suo ultimo libro “Lo Sport di Domani. Costruire una nuova cultura”. Da dove nasce l’idea e cosa l’ha spinto a scriverlo?

L’idea nasce dal fatto che me l’abbiano chiesto (ride, ndr). Io l’ho scritto molto volentieri. Ho fatto delle esperienze personali e professionali in questi ultimi anni che mi hanno portato ad interrogarmi su questi temi, e quindi ho pensato che valesse la pena di scrivere un libro. Mi farebbe molto piacere se vendesse un numero di copie sufficiente da creare un minimo di dibattito.

Credits: Add Editore

Io credo che il dibattito normalmente verta su “la superlega si, la superlega no, stanno sparendo le squadre, no non stanno sparendo, sta saltando per aria il calcio, no non sta saltando per aria, è meglio la serie A di basket a 18 o a 14, ecc.”.

Manca il livello superiore di visione o per lo meno di analisi critica a monte, per poter poi stabilire se a valle tutto quello che tu farai sarà o meno rispondente agli obiettivi che ti sei posto. Manca quella che noi chiamiamo strategia e c’è un eccesso di quella che noi chiamiamo tattica.

Questo è il motivo, diciamo ideale, o comunque di una mia esigenza di contribuire al dibattito culturale per cui ho scritto il libro. Poi, se vogliamo invece la risposta cronistica è “perché me l’hanno chiesto e perché mercé il covid-19 ho avuto del tempo per poter ulteriormente ragionare e approfondire questo tema”.

Prendo la palla al balzo e ti chiedo: si sente più a suo agio da scrittore o da giornalista sportivo televisivo?

Intanto, gli scrittori sono altri. Secondo capitolo: se a giornalista (io ho maturato questa convinzione) sta attaccato un aggettivo, c’è qualcosa che non funziona. Sportivo, televisivo, radiofonico, d’inchiesta o di intrattenimento, non è il problema. La materia di cui si occupa, o l’ambito di cui si occupa o i mezzi tecnici con cui esplica la sua professione sono sicuramente importanti, ma non devono mai interferire o definire il concetto principale.

Il concetto principale è – come faccio a livello di processo intellettuale il giornalista? – la mia risposta è: “male, in generale. Mi piacerebbe però che oggi fosse un po’ meno peggio di ieri”. Quindi io sono un non-scrittore che prova a utilizzare uno strumento come il libro (in questo caso), che mi permette una profondità di riflessione perché nel libro posso scrivere, tornare indietro, cancellare.

Nella telecronaca non c’è il taso backspace, non c’è la possibilità, se non venendo meno a quello che è il tuo dovere (e al piacere, perché mi piace farle), di prendersi del tempo.

So per certo che non sono uno scrittore e che mi piacerebbe, ma non lo sono, essere un giornalista. Non arrivo a dire un giornalista-giornalista, citando Fortapàsc, ma mi basterebbe essere un giornalista, senza aggettivi.

redazione