Intervista a Bassel Bakdounes, CEO Velvet Media: “Libertà è sinonimo di responsabilità”

Social up si è occupato spesso di novità che coinvolgono l’ambiente lavorativo. Nuove dinamiche che si sono imposte soprattutto con l’avvento della pandemia da Covid-19. Si pensi all’introduzione della settimana lavorativa corta che sta prendendo piede in molti Paesi. L’Italia, però, è molto indietro rispetto al resto del Mondo. Ecco perché un’iniziativa come quella di Velvet Media che mira ad eliminare l’orario di lavoro fisso merita di essere approfondita.

Ne abbiamo parlato con Bassel Bakdounes, CEO e founder di Velvet Media, l’azienda di Treviso che si fa pioniera e portavoce di una nuova prospettiva lavorativa che ha a cuore il concetto di libertà ed è spinta da un “ritrovato umanesimo”.

Innanzitutto, ti chiedo cos’è Velvet Media, di che cosa si occupa e quando nasce?

“Velvet è un’agenzia di marketing che nasce nel 2013. In realtà, trovo sempre che la definizione di agenzia di marketing sia un po’ limitante perché non facciamo solo questo. L’anno scorso, ad esempio, da una costola di Velvet Media è nata “Next Heroes“, forse  il primo Innovation Hub che ha focus su quello che è il web3. Un po’ singolare per essere solo un’agenzia di marketing, no? Quello di Velvet  è sempre stato, per questo, un po’ un mondo aperto”.

https://www.instagram.com/p/CJyfdpKq5E9/

Voi di Velvet Media vi definite Marketing heroes. Tra l’altro, questo è il titolo del vostro libro “Marketing heroes – Fare impresa tra manga e rock’n’roll”. Un’idea abbastanza originale che sarebbe interessante approfondire.

“In realtà, nasce come un gioco. Io ho improntato l’azienda su dei valori che derivano, in buona parte, dai cartoni animati con cui sono cresciuto da bambino. So che può sembrare una “scemenza” ma nel tempo ho riscontrato come in buona parte dell’animazione giapponese fossero intrisi dei valori molto allineati a quello che era il mio concetto di agenzia. C’è sicuramente lo spirito di sacrificio, c’è l’attenzione al più debole e il fatto che bisogna fare le cose insieme. Infatti, la seconda metà del libro prende dieci cartoni animati e ne estrapola i valori e fa il parallelo con quello che è successo, poi, nella nostra agenzia. Dalla grinta al gioco di squadra di Holly e Benji al concetto di libertà di Capitan Harlock.

È anche un modo per usare un registro più vicino ad un target più giovane e sbarazzino. Un modo per uscire da quella che era la logica canonica in cui si parla sempre di dati, si usano acronimi professionali e termini inglesi. Sono cose che ogni tanto per lavoro ci tocca fare, però, riuscire ad avere un’immagine diversa anche fisicamente – entrando nelle mura di Velvet ad esempio c’è una parete con Naruto – a me gasa tantissimo”.

Un’impresa, la vostra, che ha raggiunto ancora più clamore nel momento in cui avete annunciato di voler dare piena autonomia ai vostri dipendenti attraverso il progetto “My way my work”. L’autogestione, in qualsiasi settore, fa paura e a questo punto vale la pena chiederti perché accettare il rischio, e come funziona concretamente il progetto di Velvet?

“Ci tengo a precisare che non c’è una vera e propria riduzione dell’orario di lavoro, concettualmente magari sì, però, noi siamo partiti da un altro presupposto. Ovvero quello di dare la libertà alle persone di scegliere come, quando e dove vogliono lavorare. Facendo un parallelismo si tratta po’ come andare all’università senza l’obbligo di frequenza. Questo non significa che non vai più all’università o che non fai più gli esami. Gli esami li fai eccome, ma semplicemente è un girare buona parte della componente organizzativa e di responsabilità da quella che poteva essere l’azienda al singolo.

Io ritengo che una persona messa nelle condizioni di vivere meglio poi ti restituisca anche un output migliore, con cui non intendo dire più lavoro, ma un prodotto migliore.

Mettere una persona nelle condizioni di organizzare un po’ meglio la proprio routine la alleggerisce da una componente di stress. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, ad esempio, è stato il messaggio di una mia collega che mi scrisse un giorno: ‘guarda ho appena accompagnato mio figlio a scuola, sono in ritardo, ma non ti preoccupare accelero ed arrivo’. Io quando ho letto che una mamma deve farsi un’ora di strada correndo senza alcuna premura – perché non c’è mica un cliente che sta aspettando o un meeting – ho pensato che ci fosse assolutamente qualcosa da cambiare.

Vorrei riportare le persone al centro, il mio approccio è in questo senso umanistico.

La creatività di un grafico, per fare un altro esempio, può essere totalmente nulla nelle otto ore di lavoro prestabilite, ed avere invece un’esplosione la notte quando già lui è a casa. I due anni di pandemia ci hanno già allenato a lavorare staccati. Questa ha abituato le persone a connettersi in modo diverso. Io nonostante ciò, resto un promotore del lavoro d’ufficio, ritengo che attraverso lo scambio costante, vedendo i tuoi colleghi e parlando con persone che ne sanno di più si abbia la possibilità di crescere ulteriormente. Però un conto è dire che devi e un conto è la libertà di scelta”.

Ho parlato di rischio perché tra l’altro una simile opzione a livello legale presenta anche un vuoto normativo, come pensate di colmarlo? Credi che solo attraverso l’esperienza e i tentativi anche l’aspetto burocratico possa e debba aggiornarsi?

“Il vuoto normativo che c’è con questa nostra modalità è il medesimo che c’è con il concetto di remote working o smart working. Ad esempio, se tu stai lavorando da casa e per sbaglio ti fai male è un bel problema. C’è un vuoto normativo che spero – proprio perché stanno cominciando a venire fuori attraverso l’eco mediatico differenti modalità – che ad un certo punto qualcuno dica che è il momento di cambiare. Capire, soprattutto, come svecchiare determinate cose. Fermo restando che vorrei che il dibattito fosse molto sereno e veicolato da discussioni intelligenti che possano tutelare da una parte il dipendente dall’altro l’azienda. Il Covid ha dato un’accelerata a determinati approcci, forse è ora che anche la parte legislativa intervenga di conseguenza”.

Pensi che una simile innovazione possa essere applicata anche agli ambienti lavorativi che non lavorano nel mondo del digital?

“No, è molto difficile. Io non volevo arrogarmi il diritto di essere quello che cambia un modello lavorativo. Non è mai stato così, ma penso che per chi lavora nell’ambito del digital, di un’agenzia, della creatività, della comunicazione ecc.. – e le strategie e varianti in questo senso sono centinaia – sia ora di avere un approccio che sia un po’ più free. È ovvio che non possa essere applicato, al momento, per chi lavora nella ristorazione o negli ospedali, o in un altro tipo di settore”.

Invece, una cosa che dovrebbe esserci in tutti i tipi di azienda è sicuramente lo/a psicologo/a aziendale, quella che voi chiamate “manager della felicità”. Che cos’è e quanto è importante la presenza di questa figura, soprattutto nei confronti del tema della salute mentale dei lavoratori?

“Quando Velvet è iniziata a diventare un po’ più grande di 30 persone mi sono reso conto di non riuscire più a gestire chi lavorava con me. Prima sapevo anche chi aveva litigato col marito, chi aveva la mamma che stava male ecc… C’era un rapporto molto vicino, ma con l’aumentare delle persone non sono più riuscito. Quindi, confrontandomi anche con delle persone, ho espresso il mio desiderio di volere uno psicologo in azienda in grado parlare con i ragazzi in ambito lavorativo per dargli la giusta grinta e conforto.

Da quando c’è ha veramente placato e sedato tante situazioni che avrebbero potuto sfociare in malcontento, perché interviene subito una persona del mestiere che conosce i meandri della mente umana ed utilizza le parole più adatte ad ogni circostanza. Viene da noi un giorno o due alla settimana e vedo che gli appuntamenti sono sempre pieni, quindi, deduco che sia un servizio molto apprezzato”.

La vostra agenzia è all’avanguardia sotto tanti punti di vista. Definireste “inclusività” – anche con rispetto alla quantità di management femminile che avete – e “flessibilità” le parole chiave della vostra strategia aziendale?

“Sì, le parole chiave le hai già dette tu. Parto dal presupposto che la nostra agenzia ha un’età media di 28-29 anni, pensa solo che poco più del 50% delle persone che lavorano in Velvet sono donne. È inutile che ci giriamo tanto attorno: tra poco sarà pieno di mamme. Ma secondo te dovrei precludere a queste persone la possibilità di avere la propria vita e di gestirla nella maniera migliore? Ma stiamo scherzando?

Anzi guarda, una ragazza quando mi ha detto verso novembre, dicembre che fosse incinta sono stato il primo a dirle di non presentarsi in azienda perché avevo paura che si beccasse il Covid. Nel senso, il lavoro lo può fare lo stesso da casa, l’importante è che si organizzi. Tante volte credo che i limiti che vengono imposti siano un surrogato dell’incapacità organizzativa e del titolare e dell’azienda tutta. Quindi si fa leva sulla componente di disorganizzazione e si cerca di blindarla con gli orari fissi e con il rispetto delle regole.

Al contrario ti dico, per me più hai a che fare con persone responsabili, capaci, mature, professionali e serie meno ti servono le regole. Io non ho visto alcun tipo di flessione dal punto di vista prettamente della presenza in ufficio e attività lavorativa da quando abbiamo dato vita a questa modalità. Poi anche il discorso ‘ferie libere quando vuoi’, non se l’è inventata Velvet. La legislazione già di per sé prevede che il dipendente si possa prendere le ferie quando vuole, ovviamente, nel rispetto del team con cui sta lavorando”.

Non solo libertà negli orari lavorativi, Velvet Media, non conosce limiti temporali né fisici. Adesso siete anche impegnati in progetti che coinvolgono l’ambito del Metaverso. Ti piacerebbe spiegarci di più in cosa consiste e com’è possibile fare marketing nel Metaverso. Quali saranno i vostri passi successivi nel terreno dell’innovazione tecnologica?

“Noi abbiamo avuto un’evoluzione incredibile già dal 2014. Penso siamo stati una delle prime agenzie a riconoscere nei social network – percepiti allora come giochi e chat – la possibilità di essere un asset anche per quanto concerne la comunicazione delle aziende. Dirlo nel 2014 non era automatico, e gli stessi social non erano pronti all’invasione aziendale, le aziende poi, erano diffidenti. Quel tipo di approccio ci ha ripagato l’anno dopo quando poi c’è stato l’exploit.

Oggi, già da un anno e mezzo a questa parte, abbiamo iniziato a guardare a quella che era la tecnologica blockchain, NFT, crypto, realtà virtuale e aumentata. Inizialmente non ero proprio convinto, ma a metà dell’anno scorso abbiamo pensato che fosse necessario soffermarci sul concetto di Metaverso. Un paio di mesi dopo, neanche a farlo a posta, Mark Zuckerberg ha addirittura cambiato il nome delle sue aziende in Meta, spiegando in un colpo solo da che parte volesse virare.

Quindi, abbiamo puntato sul Metaverse e in quello che chiamiamo web3. 

Un mese e mezzo fa, per esempio, siamo stati i primi a sviluppare il primo summit sul Metaverso in Italia assieme ad AnothReality. Due settimane fa abbiamo fatto partire, invece, un corso che si chiama proprio “Marketing nel Metaverso”. Vuol dire che è necessario capire in maniera concreta quali sono le modalità attraverso le quali un’azienda può fare marketing e business in queste nuove realtà. Che si stanno sviluppando adesso sia tecnologicamente parlando che dal punto di vista della conoscenza delle persone, per questo necessitano approfondimento costante.

Non vorrei che l’Italia fosse il solito fanalino di coda, noi ci siamo!

Abbiamo pubblicato il primo libretto – dato ai nostri partner – dal titolo “Marketing nel Metaverso” per raccogliere una serie di esperienze e modus operandi sul web3. La versione ufficiale dovrebbe uscire a settembre. Veramente qui mi sento dire che il vero ‘limite è la fantasia’. Questo nuovo mondo ti dà la possibilità di fare centinaia di cose e ritengo che sia il cavallo su cui punteremo nei prossimi 10 anni”.

Giulia Grasso