pandemia coronavirus spagnola

Influenza spagnola e coronavirus: come cambiano le pandemie globali in cent’anni

La prima pandemia moderna: l’influenza spagnola del 1920

Il termine pandemia è sulla bocca di tutti, da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito così il contagio da Covid-19 in tutto il mondo. Eppure non è un neologismo e non è nemmeno un termine astruso, degno dell’epoca manzoniana. Basti pensare che esattamente 100 anni fa, quando il mondo intero si leccava le ferite dopo la fine della prima Guerra Mondiale, accadeva qualcosa che ha molti tratti in comune con ciò che sarebbe successo un secolo dopo. La chiamarono influenza spagnola ma il virus che imperversò tra il 1918 e il 1920 in Europa e nel mondo, non aveva nulla di spagnoleggiante. Venne erroneamente definita influenza spagnola perché i primi a parlarne furono i giornali spagnoli, non sottoposti alla censura di guerra in quanto la Spagna non fu direttamente coinvolta nel conflitto globale. Ancora oggi non si sa con certezza quale fu il luogo d’origine del virus, anche se molti ritengono che possa essere nato in Cina, mutando poi negli Stati Uniti. Durante il conflitto i marinai e i soldati, viaggiando e venendo in contatto con i nemici, avrebbero (più o meno volontariamente) veicolato il virus.

«Qui l’epidemia è in aumento continuo, a Desio infierisce non meno che a Milano; basta vedere le tre colonne dei morti della gente per bene nel Corriere per persuadersi qual è la mortalità nei quartieri popolari. Non si sa più dove mettere i bambini orfani di madri ed i cui padri sono al fronte. È un problema trovare ora dei medici. Tutti sono sopraffatti dal lavoro e in fondo nessuno è curato a dovere. Forse anche la grande mortalità è dovuta alla scarsa assistenza sanitaria»

Lettera di Anna Kuliscioff a Filippo Turati, 12 ottobre 1918.

Finita la guerra, il mondo intero entrò “in trincea” contro un nemico invisibile e letale: la prima pandemia moderna causata dal virus H1N1, che tra il 1918 e il 1919 infetto circa 500 milioni di persone, condannandone a morte più di 50 milioni nel mondo. Si dice che l’influenza spagnola abbia ucciso più persone in 24 settimane che l’AIDS in 24 anni e in un solo anno più di quante ne abbia uccise la peste nera in 100 anni.

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La spagnola fu la pandemia dei giovani e dei meno abbienti

Un dato significativo e singolare fu che la pandemia per lo più colpì i giovani. Quasi metà dei casi, la fascia di età degli infettati era quella compresa tra i 20 e i 40 anni. Ciò è inusuale, poiché normalmente l’influenza risulta più mortale per gli individui deboli, come anziani, bambini e gli immunodepressi. A tal proposito si ipotizza che nel 1918 gli anziani potrebbero essere risultati parzialmente immuni grazie agli anticorpi sviluppati in gioventù durante la pandemia influenzale del 1889-1890, conosciuta come “influenza russa”. Anche se non risulta esserci una diretta correlazione tra la malnutrizione e le scarse condizioni igieniche e la diffusione del virus, non si può ignorare il fatto che il mondo intero fu duramente colpito dal conflitto globale, causando povertà e scarsità di mezzi per affrontare una tale virulenza.

Influenza spagnola e Coronavirus: pandemia a confronto

Il paragone con la pandemia da coronavirus che stiamo vivendo quasi 100 anni dopo l’influenza spagnola è inevitabile. Tuttavia, oggi abbiamo la fortuna di avere alle spalle l’esperienza e il progresso scientifico che all’epoca mancava.

Ad esempio, un importante e gravissimo scivolone della pandemia spagnola fu quello di trattare il contagio come fosse causato da un batterio e non da un virus.

Fu proprio uno stimato batteriologo tedesco, Richard Pfeiffer, che nel 1918 aveva convinto i medici del tempo dell’eziologica batterica dell’infezione. Solo nel 1933 ne verrà dimostrata per la prima volta l’origine virale, lasciando sconcertata l’intera comunità scientifica.

Anche gli antibiotici e i farmaci antivirali, che giocano un ruolo fondamentale per la cura e la guarigione post-contagio, verranno scoperti solo 10 anni dopo la pandemia spagnola.

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Oggi la pandemia legata al Coronavirus viene affrontata a forze unite grazie alla supervisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, un organismo sovranazionale che, tra le altre, monitora l’emergere di nuove malattie. Tuttavia nel 1918 ancora non esisteva e ogni paese affrontava la pandemia con la propria strategia e commentando errori fatali.

Il mondo globalizzato all’epoca della pandemia

Ciò che più distingue l’influenza spagnola dalla pandemia da coronavirus dei nostri giorni è la globalizzazione. La Prima Guerra Mondiale fu il primo momento dell’epoca moderna in cui si è potuto toccare con mano l’effetto del movimento in massa di tante persone in viaggio da un continente ad un altro con un virus contagioso in corpo. Oggi, in poche ore di aereo possiamo volare da una parte all’altra del mondo, come  fanno quotidianamente le merci che acquistiamo e il cibo che mangiamo. Viaggiamo per lavoro e per piacere, prendiamo mezzi pubblici dove veniamo in contatto con centinaia di persone provenienti da altrettanti angoli della Terra. Siamo tutti sempre più connessi e lo capirono presto già negli anni ’60, quando tutto stava cambiando velocemente. All’epoca si faceva strada la cosiddetta teoria del piccolo mondo, ossia lo studio delle reti complesse presenti in natura e della loro relazione tra gli elementi stessi della rete. La teoria sosteneva che, presa una qualsiasi rete complessa – che siano i nostri neuroni, gli abitanti della Terra, uno stormo di uccelli o le reti fluviali – due elementi presi a caso all’interno della rete sono connessi da un numero molto piccolo di passaggi.

Nessuno è lontano

A dimostrarlo fu Stanley Milgram, brillante psicologo americano, che impiegò la sua vita a dimostrare quanto tutti noi fossimo connessi anche con chi vive dall’altra parte del mondo. Non esisteva Google, non esisteva i social network, esisteva solo carta e penna. Alcuni volontari dell’esperimento avevano un compito: far arrivare la lettera ad un abitante di Boston sfruttando la propria rete di conoscenze. Ognuno che riceveva la lettera doveva a sua volta trovare il modo di farla arrivare a destinazione attraverso i suoi contatti. Le lettere arrivarono a destinazione e non solo: analizzando il percorso delle lettere, queste impiegarono tra i cinque ed i sette passaggi per arrivare a Boston. In media circa 6. Da qui la teoria dei cosiddetti ”sei gradi di separazione” che ispirarono film e libri arrivati fino ai nostri giorni.

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Siamo connessi, e non solo attraverso la rete. E questa è la nostra forza, come comunità globale, sociale, economica e anche politica. Ma è anche la nostra debolezza, come esseri umani fatti di carne ed ossa vulnerabili davanti ad un nemico invisibile che si nutre proprio dei contatti umani. La più primordiale dei nostri istinti è quello della sopravvivenza ed in casi come questo, passa anche e sopratutto da un inversione di rotta rispetto al nostro mondo globalizzato: la distanza sociale. Perché se c’è una cosa che questa epidemia e quelle del passato ci stanno insegnando, è che, nel bene e nel male, nessuno è poi, veramente, così lontano.

Lucrezia Vardanega