Gigi Meroni: la sorte ingrata di una gloria granata

Avrebbe voluto fare l’artista con le mani, ma era già un artista con i piedi: mai visto un giocatore così diverso, più che particolare originale, più che stravagante atipico; in Europa c’era un solo giocatore che gli somigliasse o, dipende dai punti di vista, cui poteva somigliare, George Best il quinto Beatle. Eppure, sognava di fare il pittore ma oltre a dipingere quadri, disegnare vestiti e girare con una gallina al guinzaglio, gli piaceva da matti tracciare arabeschi sul campo di calcio con il numero sette stampato sulla schiena: zazzera al vento, barba incolta e andatura indolente portava spesso il pallone a spasso: tentava dribbling impossibili o inventava giocate impensabili. Con questi gesti pieni di ogni meraviglia calcistica era inafferrabile come la primula rossa, anzi granata: una sgusciante ala destra, la più forte della serie A, un vero incubo per le difese.

Una volta sussurrò: «Ho ventitré anni e quindi tutto il tempo per aspettare: fra dieci anni nessuno si ricorderà di me come calciatore e allora farò la personale. E la gente e i critici diranno: vediamo un po’ come dipinge questo Meroni, è un pittore nuovo, mai sentito nominare». Nel frattempo si divertiva a intervistare i passanti chiedendo loro cosa ne pensavano di lui, sicuro che in quella società non ancora rincitrullita dall’abusato uso dell’apparecchio televisivo domestico difficilmente lo avrebbero riconosciuto.

Questo era Luigi Meroni, detto Gigi, prima di quel fatidico 15 ottobre del 1967. Un eretico dal punto di vista tattico anche per il commissario tecnico della nazionale; un irregolare che faticava ad accettare certi codici comportamentali propri del mondo del calcio; uno scorretto per il bel mondo dei benpensanti cattolici poiché conviveva more uxorio con una donna già sposata. Insomma un beatnik del prato verde, che nella tranquilla Torino borghese della metà degli anni sessanta, incendiò la fantasia dei tifosi granata e catturò l’attenzione dei cugini bianconeri al punto tale che, l’avvocato degli avvocati, il mitico Gianni Agnelli tentò invano di ingaggiare, provocando una e vera sommossa popolare soprattutto tra i suoi operai, la maggior parte dei quali di fede dichiaratamente granata, che avevano trovato il loro profeta e si erano totalmente identificati in quel giovanotto dal talento smisurato che tracimava in una classe cristallina.

“Per fortuna sono finito sulla sponda giusta di Torino”, aveva detto Gigi qualche anno prima, appena giunto al Toro. E ci rimase.

Cresciuto calcisticamente nelle formazioni giovanili del Como, città in cui era nato il 24 febbraio del 1943, era giunto a giocare in prima squadra sia pure nella seconda divisione, poi nel 1962 venne ceduto al Genoa i cui dirigenti erano rimasti impressionati dopo averlo visto giocare da avversario. E qui all’ombra della Lanterna si impose definitivamente all’attenzione nazionale: le sue imprevedibili serpentine e gol memorabili, trascinarono la squadra allenata da Benjamin Santos all’ottavo posto in classifica e alla conquista per la seconda volta della Coppa delle Alpi, nell’anno 1964 in cui venne stabilito anche il record di imbattibilità del portiere genoano Mario da Pozzo. In quell’estate fu dunque ceduto, nonostante una massiccia mobilitazione della tifoseria genoana, al Torino allenato da Nereo Rocco per 300 milioni, all’epoca cifra record per un giocatore di soli ventuno anni.

Ben presto il modo d’essere di quel capellone dall’aspetto squinternato si meritò ogni genere di appellativo: farfalla granata poiché sembrava planare sul campo dopo i suoi leggeri volteggi; oppure Calimero per il suo modo d’essere che suscitava un pizzico di sana ironia tra i tifosi più anziani. Assieme al veemente e potente franco argentino Nestor Combin, formò una ben assortita coppia d’attacco: avatar dei celebri Paolo Pulici e Francesco Graziani.

Lui, Gigi, non è che segnasse molto, ma quando lo faceva erano gol d’autore: capolavori unici come quadri da esporre al museo dell’arte calcistica, tipo quello segnato proprio nella stagione fatale a San Siro 1967 alla Grande Inter del mago Helenio Herrera, dopo uno dei suoi irresistibili slalom terminato con un delicato tocco per cui il pallonetto, simile a un palloncino che sfiata, si adagiò dolcemente sull’incrocio dei pali della porta avversaria: una rete gioiello che costrinse i nerazzurri alla sconfitta dopo tre anni d’imbattibilità.

In Nazionale, non ebbe la fortuna che il suo valore meritava e dopo la prima convocazione nel 1965 contro la Polonia, l’anno dopo segnò il sesto gol di Italia- Bulgaria 6-1 e un altro otto giorni dopo contro l’Argentina. Partite amichevoli in vista della spedizione per i mondiali inglesi nei quali pur convocato non era tenuto troppo in considerazione dall’allenatore Edmondo Fabbri per continue divergenze tecniche e finì per giocare una sola partita: la seconda contro l’Unione Sovietica.

La foto della sua ultima partita Torino-Sampdoria dove, nonostante la vittoria per 4-2, Gigi abbandona il campo più corrucciato che mai è un segnale inquietante, sta per compiersi l’oscuro presagio che aveva avvolto la sua esistenza. Il destino lo ha scelto per unire le tragedie passate e future del Torino. Furono soltanto semplici coincidenze che Attilio Romero il pilota dell’auto che lo uccise divenisse poi presidente della squadra che portò allo sfascio, e il pilota dell’aereo che si schiantò a Superga nel 1949 si chiamasse Luigi Meroni?

Gli Dei del calcio si commossero a tal punto da tramare che il suo alter ego un certo Claudio Sala, un brianzolo suo degno epigono, che giocava nel Napoli fosse ceduto ai granata. Costui con le sue forsennate discese sulla fascia, i suoi dribbling ubriacanti alternati a finte incontenibili cominciò a rifornire di assist a getto continuo i cosiddetti “gemelli del gol” e questo trio incontenibile finì per regalare al Toro lo scudetto: un sogno cullato da quella tragedia in poi per ben ventisette anni.

È passato mezzo secolo da quella triste serata d’ottobre e i ricordi levigati di marmo come quelli incisi sulla stele, proprio dove avvenne l’incidente mortale, non se ne vanno più dal cuore dei veri sportivi e per questo Gigi Meroni è ancora vivo malgrado siano passati i migliori anni della nostra vita da quando si cantava il mondo è grigio il mondo è blu, la mia tristezza resti tu.

Oggi nel mondo non c’è più questa netta differenza e le tristezze sono rappresentate da un guazzabuglio di colori aggrovigliati dove il nero diventa sempre più indelebile mentre dovrebbe almeno alternarsi a toni diversi magari un po’ più attenuati, al massimo a tinte granata, come la sanguigna storia che abbiamo raccontata.

Vincenzo Filippo Bumbica