Forgotten: su Netflix il geniale thriller psicologico del sudcoreano Jang Hang-jun

Assolutamente da non perdere su Netflix, “Forgotten” (2017) è un sorprendente thriller psicologico, scritto e diretto dal regista sudcoreano Jang Hang-jun , già autore delle due commedie “Brake out” (2002) e “Spring Breeze” (2003), oltre che di alcune serie tv coreane.

Si tratta di un’opera davvero originale, che in 109 minuti sviluppa un intreccio denso e complesso, rendendolo perfettamente comprensibile allo spettatore, il quale, molto difficilmente riuscirà ad intuire i numerosi e incalzanti colpi di scena della pellicola. Un thriller psicologico di alto livello, che per la sua sofisticata sceneggiatura, non ha nulla da invidiare ai più recenti capisaldi del genere quali “Shutter Island” o “Memento“, e, a questi elementi aggiunge un’intensità, un gusto estetico e una sottigliezza psicologico-drammatica, care al cinema orientale.

La trama racconta di un ragazzo di 21 anni, Jin-seok (Kang Ha-neul) il quale si risveglia in macchina accanto a suo fratello e ai suoi genitori, dopo essersi appisolato lungo il tragitto. Insieme a loro si sta trasferendo in una nuova casa, che, però, gli appare stranamente familiare, anche se non sa spiegarne il motivo. Jin-seok venera il fratello maggiore Yoo-seok (Kim Mu-yeol), bravo in tutto, sia negli studi che nelle relazioni sociali, e nutre per lui una sincera ammirazione. I due condividono la stanza nella nuova casa. Al contrario di suo fratello maggiore, Jin-seok fatica nello studio, soffre di crisi nervose per lo stress ed è costretto ad assumere continuamente dei farmaci per farvi fronte. Questo suo stato alterato gli causa spesso dei vuoti di memoria. Inoltre, alcuni piccoli indizi, cominciano a fargli venire il tremendo sospetto che Jin-seok non sia davvero suo fratello. Ma si tratta di verità o di finzione? E la sua memoria è davvero qualcosa su cui poter fare affidamento?

Se questo è l’incipit della storia, lo svolgimento della pellicola ne stravolgerà gran parte delle premesse. “Forgotten” è un film che stupisce per la stratificazione della trama, che viene abilmente scomposta dal regista, il quale dispone gli eventi mostrati in un ordine differente da quello cronologico di svolgimento, senza provocare però ellissi narrative evidenti.

Il regista Jang Hang-jun si dimostra un abile prestigiatore dell’inconscio, abile perchè gioca con quest’ultimo e con la memoria del protagonista, in modo sottile e nascosto, mantenendo una razionalità della narrazione spiazzante ed efficace. Jin-seok, infatti, sebbene assuma farmaci e si muova in un contesto familiare idilliaco, che appare fin da subito sospetto, per lo spettatore e per lo stesso protagonista, mantiene una razionalità che lo porta gradatamente ad indagare sulle strane situazioni che lo vedono protagonista. Nel sviluppare questa prima parte del film, il regista si affida ad una fotografia lucida, la cui irrealtà è mitigata dai luoghi concreti della nuova casa in cui Jin-seok si è trasferito insieme alla famiglia. Non mancano leggere sfumature da horror orientale, come la porta chiusa della casa, che è vietato aprire, un’immagine, che, vista a posteriori, come chiarirà la parte finale del film, è metafora della memoria e della sua negazione, degli spazi irraggiungibili in cui albergano la rimozione e le parti più segrete dell’inconscio.

Dal punto di vista registico quindi il cineasta coreano si mantiene, in questa prima parte della pellicola, in bilico tra il reale e l’irreale. Lo stile non è frammentato, o chiaroscurale, come in molti thriller psicologici, al contrario, si descrive la quotidianità della vita in famiglia di Jin-seok, nella nuova casa, una quotidianità, che pian piano, si arricchisce però di contraddizioni sempre più evidenti, con una crescente presa di consapevolezza, da parte del protagonista, del fatto che la nuova casa, sia in realtà una prigione. La sparizione del fratello maggiore Yoo-seook, rapito da gente sconosciuta, la sua improvvisa ricomparsa a casa, gli incubi di Jin seok, (per i quali il regista attinge con evidenza all’horror orientale, che si alimenta di presenze fantasmagoriche) fanno “disciogliere” l’illusione.

E’ qui che si colloca la scena spartiacque del film: una scena geniale, data da un gesto semplice, ma al contempo carico di significati, come può essere guardarsi allo specchio. E’ con questa sequenza, che da’ le vertigini, che il film si tramuta del tutto subendo un’incredibile accelerazione, quasi esponenziale, che non ne fa però diminuire la qualità, anzi, la innalza, perché inserisce all’interno della pellicola componenti emozionali e drammatiche di forte impatto, senza che si perda la razionalità mantenuta fin dal principio. Gradatamente, ogni singola scena vista all’interno della casa, nella vita familiare all’inizio del film, viene spiegata passando attraverso dialoghi, ricostruzioni mentali, flashback, ma anche fughe e inseguimenti. Anche qui lo svelamento è graduale. La fotografia diventa cupa, più sporca e oscura.

Ad ogni stadio della trama il protagonista acquisisce nuove informazioni su se stesso e sugli altri, in un crescendo incalzante e rapido, ma allo stesso tempo dettagliato, che denota una notevole abilità registica e di sceneggiatura, nel riuscire in poco tempo, la seconda metà di un film, a incastrare perfettamente gli eventi di una trama a dir poco complessa, riuscendo a farlo con chiarezza, considerando anche da quanto lontano era partito il regista nelle premesse. Molto intelligente a livello di scrittura anche l’aver mantenuto ed esaltato il dualismo-parallelismo tra i due fratelli, interpretati dai due ottimi attori . Se il film comincia come un rapporto di competizione-ammirazione tra fratello minore e fratello maggiore, il finale non sarà diverso: questi due individui, legati da un destino angosciante e perfido, si sfidano in realtà durante tutta la pellicola, fino a confrontarsi drammaticamente nella chiusura del film.

Meglio ricordare, o dimenticare? Inibire se stessi e la propria identità o farla riemergere? Sembra essere questa la domanda finale di “Forgotten”.

Per i temi affrontati certo il film richiama alla mente “Shutter Island” di Scorsese, dal quale si discosta però in molti elementi, a partire dalla struttura e dallo stile, quello di Forgotten più incline alla contaminazione dei generi. Comune ad entrambi il tema della rimozione del trauma e del tentativo di riappropriarsi della memoria, così come il tema dell’ambivalenza opprimente del ricordo, che si tende a sopprimere.

Come si diceva Forgotten è un thriller psicologico che al suo interno unisce tanti stili cinematografici diversi: si avverte ad esempio la citazione dei revenge movies di Park Chan Wook , regista coreano del film “Old boy” e della trilogia della vendetta. Al contrario di Chan Wook, il quale punta molto sull’effetto scenico di impatto, sulla potenza visiva di singole scene, molte dotate di un’affascinante violenza espressiva, intesa anche in senso simbolico, Jang Hang-jun è più razionale e geometrico nel costruire la sua trama, cimentandosi in una sceneggiatura ardua da scrivere,  ma davvero ben congegnata e d’impatto, la cui narrazione cresce in intensità drammatica ed emotiva nell’incredibile rush finale.

Se operiamo invece un confronto con “Memento” di Nolan, un altro thriller che gioca sulla perdita della memoria, al punto da divenire un puzzle di dimenticanze che il regista consegna all’attenzione e alla ricomposizione mentale dello spettatore, Forgotten, lo richiama in parte per la struttura scomposta della narrazione, che, comincia da un punto molto specifico della storia per poi ridefinire a poco poco i contorni, prima sfocati, di ciò che la circonda. Lo stile di Nolan è volutamente anti-narrativo, spiazzante, disturbante perché segue le continue amnesie del protagonista, le quali fungono da meccanismo narrativo fondamentale del film. Al contrario, Jang Hang-jun dissimula i vuoti di memoria fino all’ultimo, facendoli palesare con forza nel finale e dando di essi spiegazioni esaustive.

Nel complesso siamo dinnanzi ad un ottimo film. Non è escluso che il cinema di hollywood ne faccia un remake. Del resto non è la prima volta che gli autori del cinema orientale, dotati di una creatività e di un coraggio visivo davvero inesauribile, siano presi come punto di riferimento per i registi occidentali: si pensi ad esempio, per citarne due, a “The Departed”, film che valse l’oscar a Scorsese, tratto dal coreano “Internal Affair“, o dell'”Inception” di Nolan, che, pur essendo un film molto diverso, cita esplicitamente diverse scene del bellissimo “Paprika, sognando un sogno”, film d’animazione dell’ormai scomparso regista giapponese Satoshi Kon.

Francesco Bellia