FEFF21. Ten years Japan: il futuro del Giappone tra 10 anni

Presentato al Far East Film Festival 21 di Udine, “Ten years Japan, è un film composto da 5 episodi, diretti da cinque registi giapponesi emergenti, i quali, sotto la direzione esecutiva di Hirokazu Kore’eda, celebre cineasta giapponese autore tra l’altro di “Un affare di famiglia”, vincitore della Palma d’oro a Cannes, hanno risposto con quest’opera al film del 2005, “Ten years”, girato ad Hong Kong, anch’essa una pellicola composta da episodi, diretti da giovani registi di Hong Kong, che attraverso la distopia e la fantascienza hanno immaginato nei loro cortometraggi come potesse essere Hong Kong tra 10 anni.

La loro opera ha segnato un solco e ha lanciato una sfida a diversi paesi d’oriente, nel cimentarsi con l’immaginare se stessi in un prossimo futuro. E’ così che sono nati numerosi progetti: nel 2018 Ten Years Thailand, Ten years Taiwan e Ten years Japan, che noi di Social up abbiamo potuto visionare durante il FEFF 21 di Udine.

Si tratta di cinque cortometraggi, ognuno con un tema ed uno stile proprio, che mettono in risalto, attraverso una fantascienza soft, con tecnologie verosimili da raggiungere in un prossimo futuro in Giappone, le contraddizioni e i possibili sviluppi della società. Così nel film d’apertura “Plan 75”di Hayakawa Chie, si assiste ad un cinico piano di riordino delle risorse, un progetto statale che prevede lo smaltimento dei costi per l’assistenza agli anziani, convincendoli ad accedere alla morte in anticipo. Il plan 75, infatti, promette ai vecchi indigenti una morte indolore in cambio di una somma di denaro pagata loro dallo stato prima della dipartita,che possono destinare ai parenti. Il protagonista del cortometraggio è un funzionario statale che si occupa di fare propaganda e convincere gli anziani ad accedere al trattamento. Dall’interno può vedere tutte le ombre di questo agghiacciante sistema, che, inevitabilmente lo turba profondamente.

La regista giapponese Hayakawa Chie, durante la conferenza stampa al FEF21, mediata dal critico cinematografico Mark Schilling, ha dichiarato di voler girare un film sul soggetto di questo corto di Ten years Japan. L’idea è senza dubbio interessante e provocatoria: lancia l’interrogativo distopico e conturbante su cosa in Giappone si sarebbe disposti a fare pur di aumentare la produttività e diminuire gli sprechi, al punto da considerare gli anziani più poveri un sacrificio indolore per un migliore funzionamento della società: una chiara provocazione.

In “La brigata dei monelli”, il regista Kinoshita Yusuke riflette invece sull’istruzione scolastica e sul condizionamento esterno della mente dei bambini ad opera della tecnologia. Nella società giapponese del prossimo futuro descritta dall’autore, infatti, non esistono più insegnanti che spiegano agli studenti delle classi; al loro posto opera un programma ,“Promise”, un software a cui i bambini sono perennemente connessi, tramite un piccolo apparecchio elettronico innestato sul loro capo.

Connesso a telecamere e in grado di parlare alla mente di ciascuno studente, Promise è un Grande Fratello progettato con lo scopo di stimolare al massimo ciascun ragazzino, di incentivare e far sviluppare i comportamenti che per ognuno sarebbero migliori, al fine di collocare gli individui del futuro al posto che essi meritano nella società, quello che possono raggiungere, secondo le loro inclinazioni e il loro impegno.

Dinnanzi a reazioni discordanti rispetto a quelle suggerite dal programma di Promise. i ragazzi vengono assordati da terribili suoni cacofonici che li costringono a rimettersi in riga. Nonostante questo, vi sono comunque dei piccoli ribelli, tra cui il protagonista, che incurante delle angustianti minacce uditive di Promise vuole essere libero di comportarsi come gli pare. I suoi comportamenti eversivi saranno emulati anche da altri ragazzi, i quali scopriranno che il controllo del software può essere isolato e interrotto.

Col suo corto Kinoshita Yusuke riflette sul peso che in Giappone viene dato all’educazione e al lavoro, immaginando con una provocazione, nel prossimo futuro un sistema che inglobi, sin dall’infanzia, gli individui in una compagine rigida e priva di emozioni. Un sistema che per quanto efficiente è destinato a fallire perché intenzionato ad inibire anche la spontaneità dei bambini, nonché la loro legittima possibilità di sbagliare e conoscere il mondo con i propri sogni e le loro emozioni.

Nel terzo cortometraggio “Data” la regista Tsuno Megumi racconta la storia di una ragazza adolescente che, dopo la morte della madre, ha accesso all’eredità digitale lasciatale. Nel futuro immaginato dalla regista, infatti, in qualità di eredi, si ha diritto ad accedere a tutti i dati digitali lasciati dai propri parenti.Risultati immagini per ten years japan La protagonista (Hana Sugisaki), la quale non ricorda bene chi fosse sua madre, perché è morta quando lei era piccola, utilizza i data dei social network, le e-mail e i messaggi del cellulare, che la madre ha utilizzato quando era in vita, per cercare di ricostruire la sua personalità, attingendo ai ricordi e alle tracce digitali custodite dagli apparecchi elettronici. Compie questa indagine prima di conoscere la nuova compagna del padre, andando ad interpretare questi dati e imitando il ricordo digitale della madre (ad esempio vestendosi come lei si vestiva nelle foto).

Scoprirà però che alcuni ricordi vanno vissuti e non possono essere riprodotti dalle macchine, questi gli insegnamenti del padre con cui alla fine si confronterà, trovando in lui un riferimento ben più affidabile della fredda interpretazione delle immagini e dei dati digitali, i quali rimangono pur sempre decontestualizzati dalla realtà. In questo corto, elegantemente diretto e dai dialoghi ben costruiti, la regista affronta il tema scottante dell’ambiguità del digitale, cui spesso ci affidiamo ciecamente, invece, che filtrarla attraverso i nostri sensi. E’ così che l’identità digitale in molti casi è un’identità a se stante rispetto a quella reale, al punto che viene spontaneo chiedersi: qual è l’identità che più ci rappresenta?

Nel quarto cortometraggio “L’aria che non possiamo vedere” la giovane regista Fujimura Akiyo immagina uno scenario ben più catastrofico, in cui la contaminazione dell’ aria esterna ha costretto gli uomini a trasferirsi sotto terra conducendo una vita sacrificata, ma sicura. 

Il pericolo dell’inquinamento e della malattia aleggiano in questo corto, la cui protagonista è una bambina che è pericolosamente attratta dai misteri della superficie, dai suoni e dagli animali che vivono all’aria aperta. Non è la sola. Una sua compagnia di giochi, ha scoperto addirittura un passaggio per andare all’esterno, talmente stretto che solo i bambini possono accedervi e dice di volervi andare, ponendo la domanda: è vero che fuori l’aria sia davvero tossica?

La paura della contaminazione e il rifugio come gabbia sono alcuni dei temi di questo episodio di Ten Years Japan. Emblematico che solo i bambini possano aver accesso all’esterno, come a dire che solo la loro creatività e il loro bisogno di libertà, a tratti incosciente, può portare l’umanità a credere in un futuro migliore.

Nell’ultimo corto “Per il nostro bel paese” di Ishikawa Kei si racconta invece di un incontro tra un giovane pubblicitario ambizioso ed una stravagante artista, la quale ha realizzato il manifesto di un programma governativo che incita i ragazzi ad arruolarsi nell’esercito per portare avanti la guerra contro i nuovi nemici del Giappone (in un prossimo futuro in cui si immagina lo scatenarsi di nuovi conflitti). Il regista Ishikawa Kei rievoca il pro-bellicismo giapponese della Seconda Guerra Mondiale riproducendolo tra dieci da oggi anni in Giappone e sfrutta con intelligenza una vicenda di per se minore, il fatto che l’agente pubblicitario debba comunicare all’artista del manifesto che il suo disegno è stato rifiutato, per operare un discorso di valore ben più profondo.

Messo dinnanzi alla personalità della stravagante pittrice l’agente pubblicitario scoprirà che quel manifesto è ben più di un semplice dipinto, al contrario è indirettamente un’opera sentita di sabotaggio della guerra, un subliminale tracciato di stelle che immagina un futuro di espansione tecnologica verso il cosmo, per sfruttare l’ingegno dei giovani per raggiungere lo spazio, piuttosto che farli morire in guerra.Risultati immagini per ten years japan

Come dichiarato dai registi in conferenza stampa, ognuno di loro ha realizzato la propria opera senza conoscere quella di tutti gli altri. Nonostante questo, indirizzati da Kore’ eda, questi giovani e promettenti autori, pur analizzando molte contraddizioni e avendo uno sguardo critico sul futuro prossimo del Giappone sembrano essere, infine, speranzosi verso il futuro, come emerge dal fatto che una costante delle loro opere è l’apertura verso il cambiamento e la possibilità di una soluzione ai problemi spinosi da loro stessi prospettati. C’è sempre un’auspicabile via di fuga nelle loro opere e i protagonisti delle storie raccontate prendono spesso atto di essere all’interno di un sistema viziato che li ingloba, dal quale, però, essi vogliono discostarsi e i corti fanno intendere che avranno la capacità di farlo. Dai noi interpellati su questo punto i registi hanno parlato anche di come in Giappone la loro opera sia parsa agli spettatori ben più conturbante e inaccettabile, rispetto all’accoglienza riservata a Ten Years Japan in altre parti del mondo, tra cui l’Italia.

Nel complesso, come ammesso dagli stessi registi, non si respira l‘aria rabbiosa che muoveva Ten Years Hong Kong. Lo sguardo distopico degli autori giapponesi è ben più posato nei toni e nello stile e lancia provocazioni in modo indiretto, meno dirompente scenicamente, sebbene le ipotesi prospettate siano tutte pensate attentamente da questi giovani cineasti, non a caso riuniti attorno alla “macchina da presa invisibile” di Kore’ eda.

Interessante il fatto che siano trattati alcuni temi cari ad un maestro del cinema come il regista giapponese Akira Kurosawa che nel suo film ad episodi “Sogni”, parla di diverse tematiche riprese, oggi, da Ten Years Japan. Tra queste la paura della contaminazione in “Il demone che piange” , la riflessione sul tempo e sulla vecchiaia in “Il villaggio dei mulini”, l’educazione nella favola educativa in “Raggi di sole nella pioggia”, l’ombra minacciosa della guerra in “Il tunnel”.

Il fatto che alcuni temi ritornino può essere un interessante spunto per far capire le paure e gli incubi che in qualche modo fanno parte della cultura giapponese, a prescindere dall’epoca, tanto da essere riproposti anche oggi, sebbene con occhi e scelte registiche ovviamente diverse dal passato.

Francesco Bellia