I dialetti: un patrimonio da tutelare

“Sta fitennu comu u bancu ra tunnina”

Se vostra madre siciliana, al rientro a casa, vi urla questa frase, è molto probabile che voi abbiate bisogno di una doccia. Questo (e molto altro) ci dimostra l’incredibile espressività del dialetto, che effettivamente non può neppure competere con l’italiano cosiddetto “standard”. A differenza di quanto la maggior parte della gente pensi, i dialetti non sono mere “degenerazioni” dell’italiano, ma piuttosto suoi fratelli discesi da un unico padre comune: il latino. La lingua che parliamo quotidianamente, infatti, è semplicemente un dialetto (quello fiorentino) più fortunato degli altri. Più fortunato perché lo hanno utilizzato Dante, Petrarca e Boccaccio prima e Alessandro Manzoni, ovviamente nella sua forma evoluta, poi. Ma questi altri fratelli, effettivamente, quanti sono?

È opinione diffusa credere che esista sostanzialmente un dialetto per regione, del quale si percepisce soprattutto l’accento; nel complesso si può dire che sia così, ma contarli in maniera precisa è praticamente impossibile, dal momento che spesso essi variano da un paese all’altro, da una città all’altra. Sicuramente esistono delle grandi categorie che permettono di capire immediatamente la provenienza di un parlante, una serie di luoghi comuni che hanno permesso ai comici di creare delle vere e proprie caricature. Avremo quindi il torinese con la “e” aperta, il milanese con la “u tubata” o il veneto che non pronuncia le doppie, il toscano che aspira la “c”, il genovese che dice “belin”, il sardo con tutte le “o” chiuse, il napoletano che… “a soreta”.

Questo però è solo l’aspetto più superficiale: i dialetti sono in realtà veri e propri sistemi linguistici, utilizzati nel corso degli anni per scrivere opere letterarie e, almeno fino alla metà del secolo scorso, nella comunicazione quotidiana e familiare. È proprio in questo ambito che queste lingue giudicate “inferiori” hanno dovuto cedere il passo all’italiano, più autorevole e soprattutto veicolato dai principali mezzi di comunicazione: per lavorare nel pubblico impiego, per guardare la televisione, per leggere i giornali o ascoltare la radio bisognava conoscere l’italiano. E fu così che il dialetto venne a poco a poco abbandonato, i genitori non lo insegnarono più ai figli che quindi poterono al massimo comprendere quello parlato dagli altri e, ovviamente, non trasmetterlo a loro volta ai propri. Basti pensare che tra il 1955 e il 1995 la percentuale di coloro che parlavano esclusivamente il dialetto è passata dal 66% al 6,9% e quella dei parlanti solo italiano dal 10% al 44,4%.

Ebbene, qual è alla situazione attuale la speranza di vita dei dialetti? Nessuno può saperlo: esistono in diverse parti d’Italia operazioni di tutela e salvaguardia. Sicuramente nei piccoli centri la loro presenza è molto più radicata ma il rischio è che le nuove generazioni lascino svanire questo enorme patrimonio di espressività, storia e cultura. Basterebbe davvero poco, una parola ascoltata dai nonni e tramandata ai propri figli, per far sì che la tradizione dialettale sia perpetuata e trasmessa ai posteri, così come si tutelano i grandi tesori di cui l’Italia è piena (o come almeno si dovrebbe fare).

Beatrice Anfossi