Cosa guardare se sei a casa: Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy

“Detenuto in attesa di giudizio” è un film amaro, struggente, drammatico del 1971, diretto da Nanni Loy ed ideato da Rodolfo Sonego. Con Alberto Sordi, Antonio Casagrande e Lino Banfi. 

Nei primi minuti il film inganna. Si vede Sordi brindare in Svezia all’aperto sul posto di lavoro, con tanti colleghi. E poi, Sordi che canta l’Italia con nostalgia mentre la sta raggiungendo in auto con la sua compagna svedese e i due bambini. Tutto, giustamente, è incorniciato dal luogo comune della patria che manca, della patria che è sempre meglio del resto del mondo, dell’Italia che è il BelPaese. Giustamente dico, perché il regista nel presentarci i primi minuti di pellicola come una “normale” commedia all’italiana vuole ingannarci, prepara poi, infatti, la strada per un terreno più cupo, drammatico per l’appunto, come la cromia di certe scene che verranno, fino a toccare gli alti vertici di un genere che mischia il drammatico “nero” ad una satira di denuncia sociale purtroppo ancora attuale, ma potentissima. Ci volevano, insomma, quei minuti “stereotipati”, per dimostrare che l’Italia, appunto, non è solo quel “Paese più bello del Mondo” che in tanti erano e siamo abituati ancora ad affermare. Alla frontiera il personaggio sordiano viene arrestato senza alcuna spiegazione e giustamente non ne comprende il motivo. Fin qui pare ancora una commedia, anzi una barzelletta. Qualche anno più tardi di “Detenuto in attesa di giudizio” di Nanni Loy Monicelli farà lo stesso con “Un borghese piccolo piccolo” nel 1977, relativamente ad un esordio (anzi, in quel caso ad una buona prima parte) da commedia all’italiana, poi spazzata via dal drammatico puro. 

Ma sono due pellicole diverse, per quanto aspre e dure entrambe. Concentriamoci su questa. Il titolo aveva già anticipato qualcosa, ma non certo quel tono cupo e realistico adottato da un Loy che qui non fa sconti proprio a nessuno (meno che al protagonista e ai suoi familiari, tutti innocenti). Alberto Sordi concentra su di sé impeccabilmente tutti quei sentimenti di rabbia, disperazione, frustrazione e infine alienazione che, oltre a toccare chiunque innocente accusato ingiustamente ed in lunga attesa di sapere la verità (intanto costretto a soffrire in cella per condizioni di disumanità), riguarda tutti. Ma proprio tutti, non soltanto anche coloro che Sordi incontra e conosce in carcere, che sono letteralmente prigionieri per aver commesso davvero una colpa, anche se spesso si tratta di futilità, ma pure noi. Noi che spesso siamo portati per rabbia e frustrazione dovuta alla lettura di certi avvenimenti, di certi fatti di cronaca nera a pensare che magari sia giusto punire severamente e con la morte assassini o colpevoli di simili misfatti. Infatti, la forza della pellicola risiede nel creare una tale capacità di denunciare e coinvolgere lo spettatore nello stesso tempo, che si finisce per avere la voglia ad un certo punto di manifestare insieme ai prigionieri di quell’inferno umano, a prescindere dal reato commesso, perché ci si rende conto che c’è bisogno davvero di umanità, di portare umanità laddove essa si sia completamente smarrita. È tale la condizione dei carceri italiani purtroppo in parte anche oggi, dove i detenuti sono in attesa per una lentissima macchina burocratica statale, che procede di pari passo con una giustizia spesso ingiusta, e sono perfino maltrattati da secondini indisciplinati peggio di loro (come accade nel film). Anche oggi i detenuti sono trattati come oggetti, pacchi da spedire da un paese all’altro, da un carcere all’altro, e questa simil condizione pare toccare anche uomini innocenti, come i migranti che sbarcano o qualsiasi altra persona che nel resto del mondo, magari a causa di sfruttamento del lavoro e non solo, subisce tutto questo.

La pellicola, dunque, fornisce il pretesto per denunciare un bisogno necessario di umanità che sia universale, tant’è vero che non si riesce ad odiare nessuno di quei detenuti presenti nel corso delle scene, né tantomeno Nazareno Natale, l’altro immenso attore del film insieme a Sordi (e non dopo di lui), sia per la tenerezza (ha commesso solo un furto di olive ma sta pagando fin troppo, perché magari non ha le giuste conoscenze: a tal proposito, incisiva la sequenza della scelta dell’avvocato, ove pare una gara d’asta trasposta nella ridicolaggine), sia perché è un uomo (e questo basta) ormai completamente alienato e disturbato nella sua sanità mentale e senza speranze, neanche quella della Fede (perciò distrugge la statua della Madonna, e se la prende con un concetto concreto/astratto: scena massacrante). 

Peccato che il regista abbia designato tra gli interpreti un Lino Banfi quantomai scadente sul piano interpretativo, simbolo di una corrotta “classe dirigente carceraria”, di quella giustizia che appunto non funziona, e sbaglia senza essere però mai punita. Lino Banfi in un ruolo drammatico non è forse mai riuscito, e infatti anche qui prova a far ridere quando non ce ne sarebbe proprio il bisogno, e infatti non è affatto divertente. 

Inoltre Nanni, nel districarsi tra i vari “uomini-oggetto” e nel far emergere i loro piccoli immensi drammi esistenziali per una vita negata in cella, non sempre raggiunge un equilibrio, finendo per concentrarsi molto di più sul protagonista, che in effetti, tuttavia, vive un dramma di gran lunga maggiore, trattandosi di un innocente lungamente in attesa di scoprire poi dopo anni (come accadrà nel finale) di essere ovviamente e realmente innocente. Perlomeno va riconosciuto il merito registico, rispetto a certe pellicole di Sordi che verranno fuori negli anni Ottanta, di non concentrarsi troppo anche verbalmente sul protagonista, nel senso che non lo fa parlare spesso, dà spazio anche a significativi silenzi evocativi di quella stessa alienazione carceraria ed umana di cui abbiamo ampiamente parlato. A tal proposito, strappa una lacrima la sequenza in cui vediamo Sordi sul treno, dal volto drammatico già segnato da una follia subita prima ancora di passarne delle altre più gravi ancora. Sembra un deportato ai campi di sterminio, vengono fuori in generale nel corso del lungometraggio simili condizioni poco umane, a motivo di riflessione di una giornata della Memoria troppo celebrata, ma poco presa realmente in considerazione da tutti. 

È come se l’Olocausto non fosse mai finito davvero ogniqualvolta un uomo non è più trattato come tale, e quindi la storia dell’umanità non è forse, a questo punto, da considerarsi come un eterno Olocausto? Al cospetto di questa sequenza la lacrima può scendere anche perché Sordi vede una creaturina, e si ricorda così dei suoi bambini che a causa di uno stupido errore (che poi si scoprirà in conclusione anche abbastanza voluto dall’assente giustizia: altra botta sferzante di denuncia) non può vedere e ancora non sa se li rivedrà un giorno. 

Tuttavia, la sequenza più commovente, che di lacrime e di rabbia inonda l’intero volto è quella di un Sordi che ha appena subito violenza fisica ed è ormai letteralmente impazzito, struggendosi da solo in quel misero letto di quell’altrettanto indegna cella (pathos e caratterizzazione psico-fisica alle stelle).

È il suo volto che, quasi dall’inizio alla fine, è espressione sincera e disarmante di rabbia e disperazione che tocca ogni spettatore che abbia un minimo di sensibilità. Attenzione: la pellicola non è cucita sul protagonista, ma è Sordi stesso che si è abilmente cucito, come solo un vero artista (e non solo comico) possa riuscire a fare, sul film stesso, divenendone un manifesto portavoce ancora oggi immemore e immortale, tanto più che il film, purtroppo, è ancora molto attuale. Raffinata la citazione implicita del dipinto di Van Gogh sulla “ronda dei carcerati” quanto sorprendente una conclusione inaspettata, dal momento che il regista ci trae nuovamente in inganno: Sordi viene fermato alla frontiera e comincia a scappare buffamente e comicamente uscendo dall’auto.

Sembra di essere ritornati alla commedia all’italiana, ma cosa c’entra dopo aver visto un intero film crudo, drammatico, realistico, cupo ed esistenziale come questo? 

Lo spettatore ha vissuto il dramma di Sordi come dramma proprio ed umano a causa di una giustizia, “nobile” sconosciuta, e poi? Poi si finisce a “macchietta”? E qui sta la sorpresa, Sordi traumatizzato ha soltanto la capacità, in conclusione, di immaginare il peggio dopo aver subito di tutto, passando anche un certo periodo di tempo in una clinica psichiatrica. E dopo aver sognato ad occhi aperti, lo lasciano passare e può tornare in Svezia con compagna e bambini, ma non ha più la forza di parlare, non ha più quella capacità linguistica che è espressione di quella razionalità che ci distingue dagli animali. Insomma, non è più un essere umano, e di qui la triste consapevolezza che sancisce la fine di una pellicola ciclica solo parzialmente (Sordi è in auto al ritorno dal viaggio infernale per ritornare in Svezia), perché un’amara esperienza del genere, effettivamente, turba e traumatizza come poche, perché non c’è niente di più massacrante che vivere le più disumane crudeltà atte a snaturare da te stesso la natura umana. 

Valutazione: Capolavoro 

Christian Liguori