Ava Gardner, la bella figlia dell’amor con un buco dentro il cuor

Il vento caldo dell’estate ancora una volta le scompigliò i fluenti capelli neri nell’abbacinante biancore di un paesaggio polveroso, mentre aspettava con la valigia in mano la corriera. Era vestita con un abitino che a stento nascondeva un armonioso intreccio di curve ancora impregnato, così come le sue narici, dall’acre e intenso odore di tabacco della piantagione in cui aveva vissuto con la famiglia un’infanzia di stenti durante la Grande Depressione. Partiva da Grabtown, una piccola cittadina rurale del profondo sud degli Stati Uniti dove era nata nel 1922, per andare a trovare la sorella senza sapere che stava per sfuggire a un futuro di segretaria d’azienda di provincia e alla prospettiva di un probabile matrimonio a scelta tra qualche quieto impiegatuccio o un alacre contadinotto della zona.

Diceva Arthur Schopenhauer: “Il destino mescola le carte e noi giochiamo”, così la sua foto esposta nel negozio del cognato a New York attirò l’attenzione di uno scaltro agente della MGM, ed eccola nel 1940, pronta con la penna in mano firmare un contratto, rivelatosi poi fin troppo lungo ed oneroso, con la potente casa di produzione cinematografica. Aveva appena diciotto anni e inaspettatamente arrivò dove la sua incontenibile avvenenza la condusse: bella figlia dell’amor naturalmente libera e trasgressiva, dolce e spietata.

Ava Gardner ondeggiava come un’alga marina. Aveva gli occhi verdi dell’amore, una fossetta sul mento e un buco nel cuore che tentò invano per tutta la sua vita di riempire. “Selvaggia ed ingenua, fedele all’amore malgrado ogni fallimento” disse di lei il poeta Robert Graves, anch’esso rapito dal suo esotico fascino regale.  Bruna, focosa e intrigante: un viso angelico trapuntato da uno sguardo di velluto verde, addolciva ancor di più la bocca col suo sorriso carico di promesse, mentre il corpo disegnava felpate movenze feline. Una vera e propria femme fatale che fu capace d’interpretare appieno l’arte della seduzione anche oltre lo schermo. Per questo ebbe un successo strepitoso facendo innamorare di sé intere generazioni di maschi e al contempo suscitare l’invidiosa ammirazione delle donne. Ma era solo un impronta divistica: paradossalmente questa etichetta appiccicata addosso, come una seconda pelle, non funzionava nel privato e alla fine non riuscì mai a realizzare una sua appagante vita sentimentale nonostante tre mariti, che più diversi non si può: Mickey Rooney, Artie Shaw e Frank Sinatra, parecchi amanti tra i quali Howard Hughes, Miguel Dominguin, Walter Chiari e una sequela impressionante di flirt poiché erano tanti, oltre all’ambiente del cinema, quelli disposti a lasciarsi trapassare dalle sue occhiate color dello smeraldo e rischiare d’essere intossicati dalla sua malia, Ernest Hemingway in testa.

Come attrice Ava s’impose subito all’attenzione generale nei panni della protagonista del film del 1946” I Gangsters”, in cui esordiva nel ruolo dell’uomo consapevole della propria sorte un certo Burt Lancaster, anch’egli alla sua prima volta da interprete principale.

” Sono un veleno per me e per chi mi sta vicino. Ho paura di vivere con l’uomo che amo. Lo rovinerei”, profetizza il personaggio cardine della vicenda Kitty Collins, nel disincanto di una vita ambigua e rischiosa.

In realtà Lei voleva sempre di più dalla vita ed era pronta a qualsiasi rischio per ottenerlo. Bella e infelice Pandora che apre il vaso del mal d’amore: un paradosso nemmeno poco frequente nell’esagerato mondo della celluloide che malgrado offra tanto, richiede tutto e talvolta non lascia niente.

Perfetta nel raffigurare le dolci sembianze del mito in questo omonimo film del 1951 in cui giurava eterno amore a un espressivo e intenso James Mason. Fu però nella metà degli anni 50, che la Gardner dette il meglio di sé interpretando ruoli diversi con il comune denominatore di un’avvenenza per tutte le stagioni. Briosa e sensuale accanto all’indomito Clark Gable in” Stella solitaria”; meravigliosa modella, poi moglie trascurata dal passionale scrittore Gregory Peck de “Le nevi del Kilimangiaro”; delicata Ginevra dall’incarnato di porcellana al fianco del prode e saggio  Re Artù (Robert Taylor) ne “I cavalieri della tavola rotonda”; insinuante provocatrice che diventa il tragico pomo della discordia tra due fratelli (lo stesso Taylor e Anthony Quinn) in”Cavalca Vaquero”e amante disincantata ma coraggiosa s’impone nel confronto con l’algida Grace Kelly per riconquistare il cuore del vissuto avventuriero, ancora Clark Gable in “Mogambo”.

Nel 1954 nella parte dell’avventurosa e sensibile ballerina di flamenco Maria Vargas riesce a dare una prova importante di qualità artistica con “La Contessa scalza” dove passionale più che mai seduce a vario titolo il cinico Humphrey Bogart, il languido Rossano Brazzi e l’onesto Edmond O’ Brien; l’anno dopo risplende in tutto il suo fascino esotico combattuta fra l’attrazione per il ligio colonnello Stewart Granger e l’amore per la sua terra in “Sangue Misto“; diventa una sussiegosa Lady che gioca un’ambigua partita a tre tra lo stesso Granger e il raffinato David Niven ne “La capannina”; ancora nobildonna, la sfrontata duchessa d’Alba, incendia il cuore dell’ardente pittore Francisco Goya (Anthony  Franciosa) ne “La Maja Desnuda”; e piacente signora disperde nei fumi dell’alcool i dispiaceri d’una vita sprecata nella fantascientifica atmosfera di ”L’ ultima spiaggia”.

La beltà che risplendeva nei suoi occhi ridenti e fuggitivi all’inizio del nuovo decennio incomincia, ahimè, ad appannarsi, complici delusioni amorose diluite con qualche bicchiere di troppo. Deve quindi ripiegare su altri personaggi ben più morbidi, talvolta sfumati e solo qualcuno più incisivo e azzeccato. Baronessa decaduta e dignitosa in ”55 Giorni a Pechino” sacrifica il suo amore immolandosi per riscattare un torbido passato; disperatamente sensuale è Maxine Faulk, una delle tre donne che possono salvare o distruggere l’invasato religioso Richard Burton de “La notte dell’iguana” di John Houston, il regista sempre ben disposto verso di lei che la ripropose come Sara, la longeva bellezza moglie d’Abramo ne “La Bibbia” del 1966.

In “Mayerling” del 1968 impersona l’altera gradevolezza dell’imperatrice Elisabetta in contrasto con la rigida corte viennese, mentre in ”L’uomo dai sette capestri” è la mitica cantante Lillie Langtry sogno proibito del giudice Roy Bean (Paul Newman) e nella fantastica fiaba “Il giardino della felicità” rappresenta, e non poteva essere altro, Il Piacere. Nei panni della donna matura ormai sfiorita, disposta a pagare un prezzo salato per nutrirsi della esuberante compagnia d’un giovane, affida a boccate nervose di sigaretta il suo ultimo significativo ruolo in “Cassandra Crossing” del 1976 ormai ultracinquantenne. Dopodiché, a parte qualche comparsata, smise per ovvie questioni d’opportunità più che di età: fare la comparsa non le si addiceva proprio e non avrebbe mai potuto verosimilmente interpretare una qualunque donna anziana perché per recitare bene bisogna immedesimarsi tanto.         

Una bellezza senza tempo non può essere offuscata troppo, anche quando la ruga viene giudicata senza benevolenza e siccome la vita le aveva donato l’esuberante grazia di un ardore irresistibile, Ava Lavinia Gardner tentò isolandosi di non disperdere del tutto questo patrimonio. Si rifugiò disillusa e amareggiata in compagnia della fedele sorella Beatrice e del cagnolino, sotto il cielo di Londra dove ebbe appena il tempo di terminare di scrivere la sua autobiografia prima di quel 25 gennaio del 1990 in cui lasciò la terra per diventare una stella: una vera e di prima grandezza che anche se spenta da tempo continua a brillare.

Vincenzo Filippo Bumbica