Dal chiaro sapore internazionale, Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, in concorso alla 7o° edizione del Festival di Berlino, e dal 27 febbraio al cinema, è un film biografico che non si limita a ricostruire la storia del pittore Antonio Ligabue, interpretato magistralmente da Elio Germano, ormai una solida garanzia per il nostro cinema, ma si pone fin da subito un obiettivo ulteriore: quello di ricostruirne il processo creativo, per cercare di rappresentare il mondo così come appariva agli occhi dell’artista, come esso veniva percepito dalla sua mente.
Una sfida non semplice, che spinge il regista a compenetrarsi in un racconto cinematografico che parte dalla soggettività del pittore, descrivendo il suo senso di solitudine, la sua rabbia, la sua paura abnorme per l’altro, dovuta ad una mancanza quasi assoluta di affetti e ad una difficoltà intrinseca nel relazionarsi con gli altri, anche a causa della malattia mentale; allo stesso tempo il film descrive però anche la straordinaria immaginazione dell’artista , la sua profondissima e istintiva sensibilità verso il dolore, verso l’esplosiva bellezza della natura, celebrata sempre nei suoi quadri, così come, vengono descritti nella pellicola il suo segreto ma impellente bisogno di affermazione, il suo orgoglio d’artista e la sua difficilissima ricerca della felicità.
Il primo elemento che emerge, anche al livello registico è, come suggerisce il titolo del film, il bisogno di nascondimento che accompagnava la vita di Antonio Ligabue, che fin da bambino fu contraddistinto da crisi nervose e comportamenti antisociali, assieme a condotte stravaganti, difficoltà nel comunicare, spinte autolesionistiche e comportamenti violenti, che lo portavano ad essere deriso, evitato, punito o emarginato dagli altri. Giorgio Diritti rende fin da subito questa sensazione di paura dell’altro: gli oggetti, le persone incombono sullo spettatore in modo sgradevole e violento.
Gli spazi sono claustrofobici, i colori spenti e grigi e gli angoli delle inquadrature molto spesso messi fuori fuoco: questa tecnica viene utilizzata dal regista durante la durata di tutto il film nei momenti in cui il protagonista si trova prossimo ad una crisi nervosa, sia essa appartenente all’infanzia, sia essa dell’età adulta, proprio a sottolineare la dispersione di identità di Ligabue in questi momenti di non pensiero e di mancanza di controllo, nell’incapacità di sopportare la sofferenza.
Orfano, affidato inizialmente a genitori svizzeri, solo all’età di vent’anni Ligabue fu condotto in Italia perché espulso dalla Svizzera. Giunto a Gualtieri in Emilia (patria del padre) fu dedito per molti anni ad una vita nomade e solitaria presso le rive del Po, coltivando da sempre una passione viscerale per il disegno, con capacità sbalorditive, intuitive, e un’abilità innata mossa da pulsioni interne fortissime, difficili da esprimere e da controllare.
Il film di Giorgio Diritti, pur rimanendo asciutto e assolutamente privo di fronzoli, riesce a rappresentare con grande efficacia il vagabondaggio doloroso, ma anche creativo di Ligabue. Immerso nella natura egli non è diverso da un animale, anzi ne studia, imita i movimenti in modo ossessivo, per proiettarli nella propria immaginazione e nella propria arte. In questa seconda parte del film gli spazi sono aperti, sebbene in rovina, rappresentano la libertà per Ligabue di osservare ciò che lo interessa, sebbene in condizioni di vita a dir poco ostili e proibitive.
Elio Germano nei panni di Ligabue e la regia seguono lo sguardo ossessivo dell’artista che nella Natura trova rifugio e negli animali, reali o fantasiosi che siano, dei compagni in cui immedesimarsi.Ciò che affascina Ligabue è in particolare la lotta che infuria nel mondo animale, la potenza dei predatori, in linea col bisogno di difendersi dai pericoli circostanti, che il pittore interiorizza dentro di se, tramite una pittura che per certi versi è realtà per il pittore, il quale vi si immerge totalmente, con una prolificità febbrile ma vitale. Proprio questa indomabile pulsione artistica è descritta con grande efficacia dalla regia di Diritti, che fa comprendere come l’arte sia l’unico vero mezzo di comunicazione per Ligabue: un arte che dà vita sulla tela a pulsioni troppo forti da affrontare nella realtà, come il senso di solitudine, l’abbandono, il desiderio di protezione, l’attrazione verso l’altro sesso.
Notevole nel film la scena in cui Ligabue assiste alla morte di una bambina. La sua sensibilità lo porta ad un dolore interiore fortissimo, impossibile da placare. Un turbamento che porta a volersi nascondere dagli altri e dal mondo per esorcizzarlo attraverso la pittura, e la creazione (“Ritratto di Elba”). Elio Germano riesce a trasmettere questo dolore muto e opprimente, da parte di un uomo che sa esprimersi solo con l’arte. Bella l’intuizione registica.
Tornando alla vita del pittore, l’incontro con lo scultore Leonardo Marino Mazzacurati fu fondamentale: senza di esso probabilmente nessuno avrebbe conosciuto le sue opere e l’artista non avrebbe conosciuto la sua fama, né avuto possibilità di avere gli strumenti necessari per dare origine a molte delle sue opere.
Pregio del film di Diritti è di raccontare con dovizia di particolari, sempre legati al sentire del pittore e al modo con cui egli interagisce con il mondo circostante, i successi di quest’ultimo, segnati sempre di più da un bisogno esasperato di apparire, essere compreso e valorizzato per la propria arte, come artista e come uomo. A questo intenso desiderio, che lo porta a collezionare moto e cappotti, oggetti, per apparire all’esterno e catturare l’attenzione degli altri, oltre che a far proliferare oltre ogni misura la sua già ricchissima produzione artistica, si accosta però una difficoltà insopprimibile di fondo nel potersi davvero integrare nella società.
Ligabue arriva a non Volere più nascondersi, ma la difficoltà nell’essere accettato permane, aggravata dalle crisi nervose e dal peggioramento della salute. Nell’ottica del film l’immaginazione del pittore è il suo vero riparo, la sua vera casa, come la dimora da lui pitturata nel bosco in cui sogna di portare la donna di cui si è invaghito, piuttosto che le sale delle mostre, in cui viene elogiato ma in fondo sempre emarginato.
Con una libera interpretazione Giorgio Diritti (anche sceneggiatore) descrive la poesia, la sensibilità e la sofferenza dell’arte di Antonio Ligabue, cerca di spingersi dentro la sua mente, attraverso il mezzo cinematografico, per rendere visibili processi mentali invisibili e per molti aspetti imperscrutabili, legati alla formidabile arte di questo atipico ma affascinante artista.
Le bestie feroci spesso dipinte dall’artista, nate dall’osservazione, dall’immaginazione e dall’inconscio si uniscono così ai paesaggi della sua memoria. L’arte è vitale, anche più del cibo e del calore per scaldarsi. Questo aspetto rende il film di Giorgio Diritti davvero potente nel descrivere a che livello la pulsione artistica possa essere connaturata nella mente e nel corpo di un pittore. Sono tutti aspetti che rendono questo accurato film particolarmente appetibile per il pubblico dei grandi festival, a maggior ragione per una cornice illustre come quella della settantesima Berlinale: un degno esponente del cinema italiano, che ci rappresenta perché parla di un nostro artista, ma va ovviamente al di là dei nostri confini, lì dove racconta l‘intensità della pulsione creativa impossibile da nascondere, da parte di un ultimo, per gran parte della sua vita ignorato e nascosto agli occhi della società.
Per diversi elementi il film ricorda Seraphine di Martin Provost, film del 2008 che racconta un’altra incredibile storia di un talento pittorico “nascosto” e prolifico: quello della pittrice francese Seraphine De Senlis.