Vancouver, vivere (davvero) nella città più vivibile al mondo

Di Giulia Testa per Social Up!

Quando vengono stilate le classifiche sulla vivibilità delle città, a chi chiedono?Immaginiamocelo, un economista con taccuino e penna alla mano che vaga per le strade estorcendo pareri ai passanti, ascoltando conversazioni, segnandosi gli orari dei pullman e il numero di cartacce trovate in terra. Arriva, non da solo, a un solo e singolo numero, il cosiddetto indice di vivibilità, coniato attraverso una fitta ramificazione di parametri. E così, ecco lì  Vancouver,  con novantotto virgola zero punti, a troneggiare sul podio targato The Economist.

Per quanto mi riguarda, ci ho vissuto. Da insider, ovviamente, non da ricercatrice di economia politica. Tralasciamo la parte del divertimento, l’hi-tech onnipresente, la bellezza naturale della location e la temperatura mite. Sfrondando gli elogi europei e le parodie della Fox, com’è vivere nella città più vivibile al mondo? Lo è davvero? A cosa corrisponde quella fredda cifra di gradevolezza?

Justin Trudeau. attuale Primo Ministro canadese, liberale

Sentirsi parte di una città è diverso dall’esserne turisti, ovviamente. Questo, innanzitutto, è il punto uno: Vancouver trasmette su varie frequenze fenomeni che fanno velocemente sentire a casa il nuovo arrivato, a prescindere da cultura, sesso, età e religione. Le parole di un mio professore canadese erano state chiare, “il Canada ti assimila nel suo mosaico multicolore e trovi il tuo posto anche – e specialmente – se sei diverso”. Enorme è la differenza con gli Stati Uniti, per esempio, che idealizzano l’equità solo attraverso il famoso e uniforme calderone del melting pot.

Bisogna anche essere onesti, il paese dello sciroppo d’acero è il secondo al mondo per estensione ed ha metà della popolazione italiana. Di spazio ce n’è in abbondanza, per tolleranza, integrazione e campi da hockey.

Eppure è innegabile lo spirito quieto canadese immanente nei grandi agglomerati urbani. Nessuno ha fretta perché nessuno si permetterebbe di arrivare in ritardo. E anche se fosse, nessuno si offenderebbe. Nei “soli” sei mesi in cui ho vissuto come una vancouvertie, ho appurato la loro tendenza genetica a scusarsi, che rasenta quasi il patetico agli occhi di un profano. Se uno commette un torto, chiede scusa. Se lo subisce, anche. Mettersi in fila è un dovere che tutti rispettano, ma saltarla non è considerato maleducato.

Qualora vogliate iniziare una conversazione con un indigeno del posto, vi basterà aprire una cartina. In meno di dieci secondi, l’imperativo categorico canadese ad aiutare ordinerà a qualcuno di fermarsi e assistervi.

I mezzi di trasporto, che convogliano comunicazione (verbale e territoriale) con produttività, sono sempre l’espressione dell’efficienza o della sua mancanza. Sulla mobilità pubblica di Vancouver potrei scriverci un libro di bon ton, di biologia o di barzellette. Prima che la domanda possa sorgere spontanea, la foto che gira su internet dove tutti lasciano – e nessuno ruba – le monetine del costo biglietto sul tornello rotto è assolutamente vera e all’ordine del giorno (ordine del giorno molto raro in cui il tornello è rotto, sia chiaro). L’autista del pullman saluta ogni passeggero che sale, il quale ringrazia ad alta voce ogni volta che scende. Il biglietto dell’autobus, poi è ad una zona unica, sebbene il servizio ricopra un’aerea immensa: per  andare da West Vancouver, località sciistica, a White Rock, località balneare, basta solo un euro. In mezzo passano dieci parchi regionali, cinque città, due isole e un aeroporto. L’alternativa via aria è lo skytrain, una metropolitana su cavalcavia, quella via acqua il seabus.

Stazione VCC-Clark dello skytrain, Millenium Line

E la sicurezza? Non può non essere un parametro di valutazione, giusto? La notizia di cronaca nera più grave che si può sentire a Vancouver di solito riguarda un’attacco da parte di un procione o, talvolta, un orso; con cordiali abitanti e poliziotti sui bus notturni, la criminalità è pressoché inesistente. La sicurezza è un punto cruciale. Non si tratta semplicemente del fatto concreto di non essere aggrediti o derubati; circolare indisturbati e tranquilli nel posto in cui si vive è un istinto, ad oggi la pretesa più legittima del senso di sopravvivenza declinato nella versione umana.

Il ventitrè dicembre un gruppo di studenti, fuori da un liceo in East Broadway, si agitava con cartelloni in mano alla fermata del bus. D’altronde, anche in Canada deve esserci qualche protesta ogni tanto, no? In realtà, i cartelloni facevano gli auguri di buone feste all’autista, al quale i ragazzi hanno pure offerto un caffè caldo e un coro di Natale.

Sebbene non tutti gli Stati possano permettersi treni futuristici, l’educazione è gratuita. La risposta, che è costata mesi di studi ai giornalisti dell’Economist, è banale se vogliamo.

Il senso civico non presuppone immolazioni per la patria, punizioni esemplari o trattati di convivenza civile. In alcuni casi basterebbe cambiare una minuscola concezione di base. Per esempio? Una cosa pubblica non è di nessuno: una cosa pubblica è di tutti.

Quindi, cosa vuol dire vivere nella città più vivibile del mondo? Leggerlo mi sembra più eccitante che averlo fatto. Paradossalmente non saprei rispondere, perché mentre ci vivevo non sentivo la necessità di pormi questa domanda. Ma può darsi che proprio questa sia la risposta.