Era il 14 febbraio quando Nicholas Cruz, 19 anni, apre il fuoco con un fucile d’assalto simile all’AR-15 mentre indossava una maschera a gas alla Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland in Florida. In quella strage, l’ennesima negli Stati Uniti, persero la vita 17 persone tra cui una professoressa, morta sotto i colpi del killer mentre con il suo corpo proteggeva uno degli studenti.
Come spesso accade di fronte a episodi di così tanta violenza, l’America ha ripreso ad interrogarsi sul tema caldo dell’uso delle armi. Lo ha fatto anche Donald Trump, che nei giorni successivi alla strage, ha convocato alla Casa Bianca i ragazzi sopravvissuti, i genitori delle vittime e gli insegnanti, per ascoltarli e trovare insieme strade per evitare in futuro altre simili tragedie. Tra queste è emersa una proposta shock: armare i professori. Studenti scioccati, genitori divorati dal dolore, dalla disperazione e dalla rabbia. Ma come può un ragazzo di 19 anni, che per lo Stato non è in grado di comprare una birra, essere in grado di comprare, invece, un’arma?
E’ proprio questa domanda, forse, alla base delle proposte di Trump: allargare i controlli sugli acquirenti di armi, escludendo chi ha problemi mentali, e aumentare da 18 a 21 anni l’età legale per l’acquisto. Le parole di Trump sono il primo successo politico del movimento di giovani che si oppongono alle armi che si è creato dopo la strage di Parkland, i quali avevano già ottenuto un primo successo: alzare il limite a 21 anni per l’acquisto di armi da fuoco. L’iniziativa è stata presa dalla principale catena di supermercati americani Walmart e dalla grande catena sportiva Dick’s Sporting Goods, che non venderà più fucili d’assalto, come l’AR-15 usato dal killer nel liceo della Florida, a chi ha meno di 21 anni. Insomma, sembrerebbe che qualcosa negli USA stia cambiando, eppure c’è chi storce il naso.
Mentre i democratici ritornano a sperare in una svolta che neanche Barack Obama era riuscito a ottenere, conservatori e alcuni repubblicani hanno subito reagito stizziti all’annuncio di Trump. Il sito di estrema destra Breitbart, creato da Steve Bannon, ex braccio destro di Trump, ha denunciato il presidente come un “arraffone di armi” che “cede” ai democratici. Il senatore Ben Sasse, un repubblicano conservatore che non era presente all’incontro, ha criticato il presidente per la sua tendenza a cambiare posizione per un capriccio. A tali accuse Trump ha risposto: “Dobbiamo fare quello che è giusto, non vi fate intimorire dalla Nra”, la National rifle association, la potentissima lobby americana delle armi, di cui il Presidente è da sempre un grande supporter.
Dopo solo un anno dalle elezioni, il caro Donald, amico e campione delle armi alla Casa Bianca, cambia rotta, lasciando a bocca aperta i legislatori. La realtà è che c’è un clima diverso su fucili e pistole libere in America. Trump lo sa e cavalca il cambiamento, che non riguarda tanto l’umore della maggioranza degli americani sulle armi quanto il potere della National Rifle Association, messa alle strette dai giovani attivisti.
Sull’onda di #BoycottTheNRA, 24 dei 25 gruppi che avevano concesso agevolazioni alla Nra le hanno ritirate dopo il massacro di Parkland (tra loro la Hertz e le aviolinee Delta e United). Ora vengono accusate dai conservatori di averlo fatto solo perché succubi del clima di “correttezza politica” e per paura di perdere clienti. Ma quello delle armi non è un caso isolato: le grandi imprese si erano già impegnate in altre battaglie per i diritti civili denunciando la messa al bando degli immigrati musulmani decisa da Trump e le leggi anti gay di North Carolina e Indiana. Certo, a spingerle, più che l’idealismo, è stata la scoperta che il sostegno di una causa popolare garantisce pubblicità gratuita. Pubblicità di cui le imprese hanno bisogno e di cui, soprattutto, ha bisogno Trump.