Ugo Tognazzi, uomo e personaggio prima e subito dopo attore

Profilo basso e tanto lavoro. Indefesso e metodico, già di buon mattino espletati gli obblighi quotidiani, il giudice istruttore Mariano Bonifazi, comincia la sua giornata lavorativa con una occhiata riassuntiva al contenuto delle sue ordinate carpette. Dopodiché imperturbabile nel caos di un ufficio fatiscente, il solerte magistrato si concentra nella minuziosa lettura di uno dei tanti faldoni accumulati sulla sua scrivania dove spicca quello del chiacchierato imprenditore Lorenzo Santenocito. Siamo nell’ambito della pungente commedia a sfondo sociale di Dino Risi “In nome del popolo italiano” anno 1971, dove vestito e calzato di tutto punto della sua intransigenza intinta di ideologia, un astuto e caparbio magistrato, benché onesto fino al midollo, si concede l’onore e l’onere di punire, anche se innocente, un industriale traffichino dalle umili origini nonché amico dei potenti, come tipico esponente di una società corrotta affondata in un falso benessere e contaminata da incultura e sprezzo delle regole.

L’antitesi tra i due: l’ineffabile tutore della legge interpretato da Ugo Tognazzi con la sua voce alla crema di cacao e l’arrembante gaglioffo Vittorio Gassman un logorroico  dai modi roboanti, funziona ancora una volta, per quella perfetta alchimia artistica che misteriosamente si instaura tra due tipi che più diversi non si può, visti i precedenti film girati assieme agli inizi degli anni 60, sapientemente diretti da quel raffinato regista milanese: lo storico e corrosivo “La marcia su Roma”, seguito a breve dalla graffiante satira caricaturale de “I mostri “.

Qui comincia, un’altra e molto più significativa carriera cinematografica dell’attore cremonese dopo l’esperienza televisiva di ”Un, due e tre”, in coppia con Raimondo Vianello, ignominiosamente sospesa per irriverenza nei confronti del Capo dello Stato, che lo aveva dirottato, a volte assieme allo stesso partner, sul grande schermo. Una cospicua produzione di film leggeri, divertenti e gradevoli lunga un decennio che parte nel 1950 con “I cadetti di Guascogna“ di Mario Mattoli e si snoda in una miriade di pellicole, ben quarantatré, firmate da tanti e valenti registi tra i quali Giorgio Simonelli, Camillo Mastrocinque, Steno e Giorgio Bianchi.

E dunque nel 1961 è già regista di sé stesso nella parte dell’ingenuo e disilluso impiegatuccio nella profetica commediola de “Il mantenuto”, sceneggiato anche da Luciano Salce, uno squisito e ironico talento della macchina da presa che lo sceglie per due film in rapida successione in quel biennio. Nel primo “Il federale”, Tognazzi nel ruolo di un fervente fascista sperimenta la cieca obbedienza di cui si serve il potere; nell’altro “La voglia matta” tratteggia impeccabile il personaggio di un maturo ingegnere irretito dalle vaghe lusinghe dell’adolescente maliziosa Catherine Spaak. Più tardi nel 1975, i due sodali amici si ritroveranno sul set di “L’anatra all’arancia” e in quella occasione la classe di Ugo farà da contraltare alla dirompente ironia di Monica Vitti.

Conosce e diventa l’alter ego del più anarchico, provocatore e crudele dei registi: Marco Ferreri e insieme girano alcuni film paradossali che per la loro nascosta veridicità colpiscono come un pugno nello stomaco. In coppia con Maria Vlady che con le sue angeliche sembianze nasconde una latente ninfomania, Ugo è perfetto nel dimostrare una certa arrendevolezza maschile di fondo in “L’ape regina” del 1963. L’anno dopo con “La donna scimmia”, i due raccontano le alterne vicende di un miserevole impresario senza scrupoli, cinico, sfruttatore dell’orribile aspetto peloso di una donna disgraziata che diventa un fenomeno da baraccone. Continuerà a condividere pensieri e parole del grande maestro milanese e questa collaborazione genera nel tempo, capolavori assoluti quali: “Marcia nuziale”; “L’harem”; L’udienza”; “Non toccare la donna bianca” per finire nel grottesco spaccato sociale de “La grande abbuffata”, che nel 1973 chiuderà quella magnifica collaborazione. Nel frattempo lavora con Antonio Pietrangeli e dà di matto impersonando il paranoico marito di “Il magnifico cornuto “che disillude la deliziosa moglie Claudia Cardinale e appare quasi patetico in un cameo di “Io la conoscevo bene”, un film dominato dalla incisiva presenza di Stefania Sandrelli.

Chiude alla grande quello splendido periodo cucendosi addosso i personaggi più disparati uniti però dal sottile e quasi invisibile filo logico della loro grande fragilità a volte frammista a una nascosta cattiveria che li rende nudi e crudi di fronte alla realtà. Ecco “La vita agra “ di Carlo Lizzani;” L’immorale” di Pietro Germi; “Il padre di famiglia “di Nanni Loy;” Il commissario Pepe” di Ettore Scola; “Straziami ma di baci saziami” ancora diretto da Risi e infine “Nell’anno del signore” di Luigi Magni. Al contempo cura altresì la regia dell’allegorico “Il fischio al naso” e del sottovalutato “Sissignore”.  Dirigerà poi anche “Cattivi pensieri” e “I viaggiatori della sera”.

Con l’avvento degli anni 70, scopriamo un Ugo Tognazzi sempre più innamorato della vita: aveva amato tante donne, altrettante ne aveva corteggiate e qualcuna pure l’aveva sposata ma ora incontra quella giusta: Franca Bettoja; si dilettava di gastronomia e finisce per diventare un provetto cuoco che cucina per gli amici; giochicchiava a tennis e ora organizza veri e propri tornei che finiscono in happening; sembrava un padre immaturo e invece allarga la sua cerchia famigliare e così il suo lavoro ne beneficia e tanto.

Tant’è che nel film di Alberto Lattuada “Venga a prendere il caffè da noi” egli sfodera un colpo di genio improvvisando sul set una leggera zoppia dell’azzimato protagonista Emerenziano Paronzini come a voler sottolineare il valore effimero della presenza rispetto alla bontà invisibile della sostanza. Allo stesso modo riesce a rivestire di profonda umanità un travestito dal drammatico destino nella sfolgorante cornice del film di Vittorio Caprioli:” Miserie e splendori di madame Royale”. Il momento magico di Ugo Tognazzi continua come protagonista di due film diretti entrambi da Alberto Bevilacqua tratti dai suoi romanzi. Nel primo “La Califfa”, duetta mirabilmente con la splendida protagonista Romy Schneider. Nell’altro, la malinconica vicenda sentimentale di “Questa specie di amore”, cerca di rianimare il complicato ménage con l’indecifrabile moglie Jean Seberg.

A questo punto di certo non può mancare una fattiva collaborazione con Mario Monicelli, il padre della commedia italiana, che dopo l’avvio soft di “Romanzo popolare” deflagra prepotentemente con la trilogia di “Amici miei”. Un set irresistibile dove, un grandioso Ugo Tognazzi, attorniato da uno stuolo di ottimi professionisti quali Gastone Moschin, Adolfo Celi, Philippe Noiret, Duilio del Prete e Renzo Montagnani, si cala a piombo nella parte del famigerato conte Mascetti per dare una precisa fisionomia a un giocoso bellimbusto perdi più amante di una ragazzina, che con i comportamenti da marito e padre sconsiderato mette anche in serio repentaglio l’incolumità della sua famiglia. Come in una rappresentazione teatrale, disciplina da lui tanto amata e professata, il sipario del suo immaginifico percorso cinematografico si chiude col botto del clamoroso successo di un’altra trilogia: quella del “Vizietto” diretta dall’eccellente Eduard Molinaro, dove l’attore cremonese nei fruscianti panni di Renato Baldi, amante del melodrammatico Albin Zazà (uno stupefacente Michel Serrault), ci regala una prestazione da antologia infarcendo di ricami artistici le mal sopite velleità di un uomo anche se dichiaratamente gay.

Nel 1990, quattro anni dopo la scomparsa di Adolfo Celi, la musica finisce anche per lui a sessantotto anni, e gli amici Montagnani, Del Prete e Noiret se ne andranno dopo. Oggi solo Moschin rimane a ricordare quel gruppo di spensierati mattacchioni su cui svettava per la sua incredibile capacità di sfornare un personaggio dopo l’altro in un esaltante caleidoscopio cinematografico, lui Ugo Tognazzi: arguto e grottesco, sottile e grossolano, sornione e verace.” Un uomo e personaggio prima e solo dopo attore”, come ebbe a dire durante la sua omelia funebre, l’amico Mario Monicelli anche lui complice di tante zingarate.

Vincenzo Filippo Bumbica