Shakespeare fra birra e vino – #fooks

Chi è amante della letteratura inglese, non ha potuto fare a meno di notare che fra le pagine dei grandi autori britannici scorrono fiumi di birra e vino, che vanno ad innaffiare succulenti pranzi. In particolare, ciò accade soprattutto nelle opere degli scrittori “attivi” nel periodo dell’avvio del colonialismo inglese. Nel 16° e nel 17° secolo in Inghilterra arrivavano nuovi cibi e bevande da tutte le parti del mondo: tè, cioccolato, patate e ananas contribuirono a raffinare i palati degli inglesi. Ma più dell’interesse per tutto ciò che di commestibile si poteva mettere in pancia, la letteratura inglese di quel periodo svela uno straordinario amore, appunto, per birra e vino. Anche questo ha una ragione storica, al di là dell’abbondanza di malto: l’acqua era considerata una bevanda pericolosa dal punto di vista sanitario (particolarmente nella città di Londra, dove l’igiene delle acque era assai precaria), perciò la birra era l’unica bevanda per tutti, a tutte le ore del giorno. Il vino, “nettare degli dei”, era riservato invece ai ricchi e scorreva a fiumi nelle Corti e nei palazzi dei Baroni.

In particolare, nei drammi di Shakespeare, cibi e bevande accompagnano i temi e le vicende dei testi, il più delle volte come allusioni simboliche. Ad esempio, i personaggi malvagi vengono spesso definiti “rotten apple“, cioè mele marce e la “human kindness” (l’umana gentilezza) viene rappresentata attraverso il latte.

Ma la protagonista è soprattutto la birra, che scorre a fiumi nelle taverne: Shakespeare disegna alcuni dei suoi personaggi ricalcandoli sui bevitori dalla sete inestinguibile che sedevano per ore nelle taverne, con la pinta di birra in mano, ingurgitandone ettolitri. Così, mentre il grande drammaturgo inglese afferma “ché un boccale di birra è un pasto da re“, Enrico V sospira “Ah, come mi vorrei trovare a Londra, | in una birreria! Sarei disposto | a barattare tutta la mia gloria | per un gotto di birra e la pellaccia“.

Tuttavia, il dramma in cui cibo e bevande sembrano fare la parte del leone, in Shakespeare, è il Macbeth, dove il vino è metafora del sangue che scorre, ma serve per camuffare la droga che addormenta le guardie del re prima del suo assassinio. Il brindisi durante il banchetto del III atto, è il segnale involontario per l’apparizione dello spettro di Banquo. Esso poi, dice il Portiere nel suo memorabile intermezzo comico, provoca tre cose: “naso rosso, tanto sonno e l’urina; in quanto alla libidine, la crea e la distrugge, la provoca e ne impedisce l’esecuzione, la fa rizzare sù e poi la tira giù…“.

Eppure, la ricetta più famosa del libro è qualcosa che non vorremmo sottoporre neanche al nostro peggior nemico. Noi ve la riportiamo per amor di cronaca, ma davvero… don’t try this at home!!!

Girate attorno al calderone, e gettatevi dentro un rospo, preso nel sonno, che ha sudato veleno per trentun giorni e notti, sotto una pietra fredda. Aggiungete, nell’ordine: filetto di serpente d’acqua, occhio di ramarro e dito di rana, pelo di pipistrello e lingua di cane, forca di vipera e aculeo di orbetto, zampa di lucertola e ala di allocco, scaglia di drago, dente di lupo, mummia di strega, ventricolo e stomaco di uno squalo marino gonfio. Proseguite con una radice di cicuta strappata nel buio, il fegato di un ebreo bestemmiatore, fiele di capra e rametti di tasso tagliati nell’eclissi di luna, naso di turco e labbra di tartaro, dito di neonato strangolato partorito in un fosso da una sgualdrina. Aggiungete viscere di tigre e raffreddate con sangue di babbuino.

… Bon Appetit!

Emilia Granito