Scarpe Rosse e il cammino delle donne contro il femminicidio

Decine di scarpe da tennis, ballerine, décolleté, scarpe di tutti i modelli e le misure, posizionate in ordine su una piazza e accomunate da un solo colore: il rosso.

È questa l’installazione “Zapatos Rojos” realizzata per la prima volta nel 2009 dalla pittrice messicana Elina Chauvet per denunciare la mattanza di Ciudad Juárez, la città di frontiera nel nord del Messico dove è nato il termine “femminicidio”. A partire dal 1993, infatti questa città ha vissuto i rapimenti, gli stupri e le uccisioni di centinaia di donne, senza punizioni esemplari per i colpevoli.

Ma perché proprio le scarpe rosse? Questo simbolo rappresenta da una parte il colore del sangue versato dalle vittime, dall’altra il fascino gioioso tutto femminile che ogni donna dovrebbe avere la libertà di esprimere senza ostacoli e costrizioni, e che invece sempre più spesso si decide di sopprimere. Non è un caso il riferimento alla fiaba “Scarpette Rosse” di Hans Christian Andersen, dove la bambina protagonista indossando queste calzature scopre una forte energia vitale che la porterà ad una danza incontrollata e infinita.

Al progetto “Zapatos Rojos” si ispira la Fondazione Scarpe Rosse: un’associazione italiana creata da un gruppo di donne, per affrontare, attraverso l’arte, tutte le sfaccettature della loro vita, dal dolore all’amore passando per il lavoro. L’intento principale però è quello di portare alla luce le storie vere di migliaia di donne colpite dalla violenza di genere brutalmente applicata spesso da mariti, fidanzati e parenti vari. Trovano posto però anche le testimonianze delle donne che lottano o hanno lottato per vedere riconosciuti i propri diritti.

La Fondazione vedrà il suo debutto il 25 novembre a Villa Letizia a Roma, in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, con Art Meets Red Shoes e le tele di Tara, alias Cristina Silvestri artista in erba che dopo una vita passata nelle gallerie d’arte ha finalmente scoperto la sua vera vocazione nella pittura. 

“Le sue opere- spiega all’ANSA la presidente Tiziana dell’Orto – saranno in vendita a un prezzo simbolico, perché lo scopo per noi è che le persone portino a casa il messaggio, più che la raccolta fondi. Il ricavato andrà poi a una Onlus che opera sulla tematica scelta. Partiamo dall’arte figurativa, ma abbiamo già molte idee anche per la musica, sui film, la poesia”.

Le opere di Tara sono realizzate tutte con materiali riciclati principalmente giornali usati. L’autrice incolla, ritaglia e sovrappone titoli e notizie trasformandole in vere e proprie opere d’arte. “La mia – dichiara Tara – è una sorta di Pop art contemporanea, dove affronto tematiche forti, come la guerra, ebola, l’alcolismo, perché per me, se decidi di fare arte devi raccontare la realtà”.

Il risultato è una sorta di patchwork dove le storie delle protagoniste emergono attraverso le pagine dei più noti quotidiani nazionali. Ogni opera ha anche un retro, dove vi è sintetizzata la vicenda narrata.

Si va dalla battaglia sul diritto all’istruzione di Malala, vincitrice del Nobel nel 2014, alla Superga insanguinata di ”Andavo a scuola”o”Stzhmongshan”, denuncia contro ”quella sorta di lager cinese dove le donne lavorano 16 ore al giorno, rischiando di morire intossicate”. Oppure “Lamette”, opera dedicata ai 140 milioni di ragazze nel mondo che hanno subito mutilazioni genitali. Ed infine c’è la prima pagina che ritrae Reyhane, nel 2014, mentre rigetta le accusa di omicidio del suo stupratore. Come ci suggerisce però l’immagine del cappio e della corda la donna purtroppo non riuscì a sfuggire alla condanna a morte.

Alice Spoto